La holding di fatto può abusare della direzione

Ciò accade quando i familiari/holders spostano risorse da una società fallita ad altre

Di Maurizio MEOLI

Il Tribunale di Napoli, nell’ordinanza del 6 marzo 2018, ha precisato che, nel caso di una pluralità di società riconducibili a più persone fisiche appartenenti alla medesima famiglia, è ravvisabile tra le stesse una società di fatto/holding pura, volta a occuparsi di fornire un livello decisionale unitario e sovraordinato rispetto alle singole società del gruppo, ove si accerti la presenza dei seguenti elementi:
– la coincidenza della sede legale (ovvero di quella operativa) per gran parte delle società del gruppo (sede, peraltro, coincidente con il domicilio dei membri della famiglia);
– la denominazione quasi identica di molte società, spesso aventi il medesimo oggetto sociale, in modo da apparire anche nei confronti dei terzi come un’unica realtà imprenditoriale;
– la comunanza, in molti casi, del collegio sindacale;
– la realizzazione di numerose operazioni intercompany. Tra le altre, trasferimenti di immobili, passaggi di denaro, sottrazioni di clientela e distrazioni operate da una società, poi dichiarata fallita, in favore di altre società del gruppo.

La prova diretta del rapporto sociale (art. 2247 c.c.) consiste nella dimostrazione dei seguenti elementi:
– il conferimento di beni o servizi per la formazione di un patrimonio comune;
– l’intenzione di vincolarsi e collaborare per conseguire risultati patrimoniali attraverso lo svolgimento in comune di un’attività economica, che viene quindi determinata da ciascun socio (c.d. affectio societatis);
– la partecipazione agli utili e alle perdite.

Come affermato dalla Cassazione n. 3520/2000, ove il rapporto fra i componenti di un’impresa familiare si strutturi all’esterno come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili e alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’affectio societatis, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230-bis c.c., in modo tale che il rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione, in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario.

Per appurare l’esistenza del vincolo sociale è possibile ricorrere a prove storiche, basate su elementi documentali, o, in mancanza, a prove critiche, basate su presunzioni gravi, precise e concordanti (e fondate su elementi assolutamente chiari e univoci).
Ad esempio, la giurisprudenza sostiene che i finanziamenti e le fideiussioni a favore dell’imprenditore, se non sono di per sé idonei a evidenziare il rapporto sociale fra quest’ultimo e il finanziatore o garante, possono costituire indici rivelatori del rapporto stesso, qualora, alla luce della loro sistematicità, di ogni altra circostanza del caso concreto (quale l’esclusione del diritto di regresso) e del concorso con gli altri elementi strutturali del contratto di società, siano ricollegabili a una costante opera di sostegno dell’attività dell’impresa, qualificabile come collaborazione del socio al raggiungimento degli scopi sociali (cfr. Cass. nn. 3349/2003 e 2200/2003).

Si evidenzia, inoltre, come la formula “direzione e coordinamento”, di cui all’art. 2497 c.c., equivalga a “gestione unitaria” o “direzione unitaria”, intesa come elemento qualificante del gruppo (cui si affianca il “controllo”, per i gruppi di subordinazione o “verticali”, realizzandosi, diversamente, un gruppo di coordinamento o paritetico, detto anche “orizzontale”).
Il gruppo viene visto come una situazione di fatto, connotata dall’esistenza di una direzione unitaria di più società, che genera una serie di diritti e doveri di tipo informativo, organizzativo e risarcitorio. Nel complesso – osserva la decisione in commento – emerge la tendenza a “legalizzare” il gruppo, ovvero a farlo “evolvere” da fenomeno meramente economico a situazione dotata di specifico rilievo giuridico.

A fronte di ciò, un contesto quale quello sopra descritto fa propendere per la considerazione che la società fallita (così come le altre società) sia stata eterodiretta dalla holding familiare di fatto, con l’intento di farle cedere – peraltro con modalità pregiudizievoli per la stessa e per i suoi creditori – gli asset societari più rilevanti, distraendo ogni suo attivo patrimoniale.
Il tutto, quindi, nell’interesse esclusivo della capogruppo e dei suoi holders e non già della società eterodiretta fallita.
Né il pregiudizio subito dalla società fallita e dai suoi creditori è giustificabile nella logica del gruppo, dovendo, a tal fine, sussistere un interesse giuridicamente ed economicamente apprezzabile anche della società eterodiretta.

Pertanto, nella specie, la responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale deriva dal mancato rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede imprenditoriali, tale da configurare un abuso nell’esercizio del potere di direttiva e di istruzione, perché volutamente preordinato a soddisfare gli interessi propri della capogruppo (di fatto) o di altri soggetti, interni o esterni al gruppo, con esiti sfavorevoli o pregiudizievoli per la società controllata (cfr. Trib. Palermo 15 giugno 2011).

2019-09-30T08:14:07+00:00Settembre 30th, 2019|News|
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