Il Tribunale di Roma sembra riproporre un contestato orientamento dei giudici di legittimità

Di Maurizio MEOLI

Il Tribunale di Roma, nella sentenza 15 maggio 2019 n. 10212, fornisce una serie di importanti indicazioni in ordine ai compensi degli amministratori di spa.

Ai sensi dell’art. 2389 comma 3 c.c., “la rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. Se lo statuto lo prevede, l’assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche”.

Secondo i giudici romani la norma farebbe riferimento a quelle prestazioni che esulino dal normale rapporto di amministrazione (attività estranee), rientrando tra le funzioni tipiche dell’amministratore soltanto quelle inerenti all’attività di gestione ed amministrazione sociale.

Questa precisazione sembra riproporre un orientamento emerso in talune pronunce della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 11023/2000 e Cass. n. 2861/2002), ma poi contraddetto dalla Cassazione n. 11235/2015. In tale ultima decisione, infatti, si è sottolineata la necessità di non confondere le “particolari cariche”, cui si riferisce l’art. 2389 comma 3 c.c., che vanno ricondotte all’attività amministrativa, con gli incarichi aggiuntivi, diversi dall’attività amministrativa.

Ad ogni modo, il Tribunale di Roma osserva, altresì, come le indicazioni prospettate in materia di business judgment rule trovino applicazione non solo con riferimento alle scelte di gestione intese in senso stretto, ma anche con riguardo alle scelte organizzative dell’impresa, tra le quali rientrano anche quelle concernenti i compensi da riconoscere agli amministratori muniti di particolari cariche ai sensi del terzo comma dell’art. 2389 c.c.

All’amministratore, poi, oltre al compenso prestabilito per la carica rivestita, è possibile riconoscere una sorta di trattamento di fine mandato, che non nasce da specifiche norme di legge o da contratti collettivi (come accade per il TFR dei lavoratori dipendenti), ma da un semplice accordo sociale pattuito in sede di atto costitutivo o, successivamente, in sede di delibera assembleare, dove sono gli stessi soci a stabilirne l’importo. Si tratta, quindi, di una erogazione, analoga al TFR dovuto ai lavoratori dipendenti, che non muta tuttavia la natura di compenso per il solo fatto di essere differita nel tempo.

In tale contesto il Tribunale di Roma colloca anche la previsione di una elargizione da corrispondere “a titolo di indennità compensativa e risarcitoria” nel caso in cui l’amministratore dovesse rassegnare le dimissioni su richiesta dell’azionista di riferimento (nella specie, in particolare, si trattava del Ministero dell’Economia).
Ove, invece, come in concreto accadeva, l’elargizione venga effettuata “in funzione dell’impegno profuso e degli assai significativi risultati raggiunti” ed “a titolo di riconoscimento per l’apporto offerto …, sia in ordine al puntuale conseguimento degli obiettivi posti … che in termini di incremento significativo di valore aggiunto per l’azienda”, ci si trova in presenza di una attribuzione più difficile da qualificare. Mentre il riferimento all’impegno profuso e ai significativi risultati raggiunti farebbe pensare ad una sorta di premio, quello al riconoscimento per l’apporto offerto farebbe pensare comunque ad un compenso, in termini di corrispettività con le prestazioni rese dal beneficiario.

Notevoli le conseguenze della differente qualifica. Ove lo si inquadri come compenso, infatti, dovrebbe essere riconosciuto dall’assemblea della società. Ove, invece, lo si configuri come premio, potrebbe essere deciso dal CdA, ma tale scelta deve comunque essere razionalmente giustificata, e non rappresentare un immotivato arricchimento.

Un premio privo di giustificazione, peraltro, determina la relativa responsabilità del cda anche in caso di preventiva “autorizzazione” assembleare. Ed infatti, l’art. 2364 comma 1 c.c., nell’elencare le materie attribuite alla competenza della assemblea, fa salva, in ogni caso, al n. 5, la responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti, con ciò escludendo in radice che una eventuale autorizzazione assembleare al compimento di un atto pregiudizievole possa impedire l’esercizio dell’azione di responsabilità, non solo da parte dei creditori, ma anche da parte della società stessa.

Di conseguenza, anche se formalmente deliberata, una autorizzazione di tal tipo non sarebbe comunque idonea ad esimere da responsabilità gli amministratori per il compimento di un atto lesivo del patrimonio sociale, assolutamente ingiustificato ed irrazionale.

Tale principio non subisce eccezioni nel caso in cui si tratti di società partecipata dallo Stato, dal momento che la società con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato (o gli enti pubblici) ne possiede le azioni, in tutto o in parte.
Nella specie, quindi, quand’anche si fosse dimostrato il parere conforme dell’unico azionista pubblico (il Ministero dell’Economia), questo non poteva certo imporre al cda il riconoscimento di emolumenti ingiustificati e lesivi per il patrimonio sociale e, correlativamente, lo stesso non era giuridicamente vincolato alle direttive impartite dal socio pubblico.