Effetto esdebitatorio preclusivo delle procedure di composizione della crisi

Riguardo al sovraindebitamento il CCII risolve il contrasto giurisprudenziale aderendo all’orientamento maggioritario

Di Chiara CRACOLICI e Alessandro CURLETTI

Uno dei presupposti di ammissibilità alle procedure di composizione delle crisi ex L. 3/2012, comune a tutte e tre le procedure di sovraindebitamento, è indicato, quanto al piano e accordo, dall’art. 7, comma 2, lett. b) e, quanto alla liquidazione, dall’art. 14-ter comma 1 della L. 3/2012 (per il primo presupposto, quello del sovraindebitamento, si veda “Debitore in stato di crisi o insolvenza per il sovraindebitamento” del 22 luglio 2019).

Ai sensi del combinato disposto di tali norme, la proposta di piano o accordo o la domanda di liquidazione è inammissibile ove il debitore “ha fatto ricorso, nei precedenti cinque anni” alle procedure di composizione. L’interpretazione della locuzione ha sollevato un dibattito in seno alla giurisprudenza. Il primo provvedimento che si è registrato è il decreto del 28 gennaio 2016 del Tribunale di Massa, che ha sostenuto che la locuzione “appare comprensiva tanto del caso in cui una di tali procedure si sia effettivamente svolta quanto di quello in cui sia stata fatta semplicemente domanda e questa sia stata disattesa”.

Successivamente, è intervenuta la Suprema Corte, che, con sentenza n. 1869/2016 ha diversamente interpretato la locuzione “vi abbia fatto ricorso” nel senso di aver fruito degli effetti pieni dell’istituto stesso nel quinquennio anteriore. Vale a dire, come ben esplicato in senso conforme dal decreto del Tribunale di Cagliari dell’11 maggio 2016, aver avuto accesso ad una delle procedure, “con conseguente effetto esdebitatorio”.

D’altronde, logica vuole che se il legislatore avesse voluto far riferimento alla sola domanda quale motivo di inammissibilità, avrebbe utilizzato il termine tecnico di “proporre ricorso”, anziché di “fare ricorso […] ai procedimenti”. E che questa sia la corretta interpretazione da fornire alla norma lo si può evincere dalla ratio della stessa, “quella di impedire al debitore di beneficiare ripetutamente dell’esdebitazione e di fare affidamento sulla disciplina del sovraindebitamento per assumere con leggerezza debiti” (cfr. Tribunale di Cagliari, decreto 11 maggio 2016).

L’interpretazione indicata è stata nel tempo nuovamente confermata dalla Sezione Sesta Civile della Suprema Corte, che, con l’ordinanza n. 19117 del 1° agosto 2017, ha ancor più espressamente precisato come l’inciso di cui all’art. 7, comma 2, lett. b) L. n. 3/2012 vada correttamente inteso “come referentesi all’avvenuta fruizione dell’istituto nei suoi effetti esdebitatori; cosa che chiaramente non è ove l’accordo non sia omologato, ovvero ove lo stesso sia stato annullato, come nella specie, in sede di reclamo”.

Sul punto, non va sottaciuto come si sia registrata anche una corrente, che, nonostante le intervenute pronunce della Cassazione, sembrerebbe aver aderito all’orientamento del Tribunale di Massa su citato. Si consideri, in tal senso, il decreto, con cui il Tribunale di Cuneo, nell’accogliere l’istanza di nomina di un professionista facente funzioni di organismo di composizione della crisi e, ai fini che qui interessano, nel vagliare la sussistenza del presupposto di cui alla disposizione di cui all’art. 7 comma 2 lett. b), ha ritenuto che “la fase di nomina costituisce, al pari di quella che viene successivamente al deposito del piano, della proposta o della domanda di liquidazione, una fase del procedimento di composizione della crisi: se così non fosse, il legislatore non l’avrebbe trattata al pari delle altre fasi e non avrebbe vietato la plurima presentazione di ricorsi ex art. 15” (cfr. decreto di nomina del 28 maggio 2018).

Conforme all’orientamento maggioritario e di fatto contrario all’orientamento del Tribunale di Massa e di Cuneo, risulta il Tribunale di Torino, che, con decreto interlocutorio di fissazione udienza del 29 maggio 2018, reso nell’ambito di una procedura di accordo di composizione della crisi, poi confermato in sede di omologa (cfr. decreto 16 ottobre 2018) ha ritenuto che il presupposto ostativo previsto dall’art. 7, comma 2, lett. b) debba ritenersi integrato “solo in caso di ammissione ad una procedure previste dalla legge – e non, pensando al caso esaminato, nell’ipotesi in cui il debitore abbia presentato una proposta di piano del consumatore, poi dichiarata inammissibile – di là di ipotesi di abusiva reiterazione della domanda già rigettata”.

E che questo sia oramai l’orientamento maggioritario lo si può desumere anche dal fatto che la medesima tesi è stata di recente riproposta dalla Suprema Corte, nella sentenza n. 17836/2019, che ha nuovamente e con forza legato l’effetto preclusivo di cui all’art. 7 “nella sola ipotesi che il debitore abbia concretamente beneficiato degli effetti riconducibili a una procedura della medesima natura”.

Il legislatore delegato sembrerebbe aver fatto tesoro dei preziosi insegnamenti giurisprudenziali, tanto da aver sostituito, nel Codice della crisi di impresa, in vigore dal 15 agosto 2020, la poco chiara locuzione “se ha fatto ricorso”, presente nella legge n. 3/12, con l’inequivoca locuzione “se è già stato esdebitato nei cinque anni precedenti” (art. 69, comma 1 per il piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore, art. 77 per il concordato minore).

2019-09-23T07:49:47+00:00Settembre 23rd, 2019|News|
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