I «benchmark» offrono dei segnali di attenzione ma non possono, da soli, identificare la situazione

Di Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE

L’attesa della pubblicazione degli indicatori sulla crisi d’impresa da parte del CNDCEC ha accesso il dibattito e sollevato preoccupazioni tra studiosi e professionisti. Il nuovo Codice della crisi d’impresa, infatti, introduce in Italia lo strumento dell’allerta interna, basato sul motto “prevenire è meglio che curare”, con l’obiettivo di far sì che l’imprenditore colga in anticipo i segnali di crisi per poter individuare il prima possibile e, quindi, porre in essere, le azioni necessarie al fine di salvaguardare gli equilibri d’impresa e la continuazione dell’attività. Al fine di individuare i segnali di crisi si possono utilizzare indicatori prospettici (es. flussi di cassa previsionali) così come retrospettici (es. indici di bilancio basati sui bilanci consuntivi). Nel dibattito su tali temi molti studiosi e professionisti sottolineano, tra i molteplici aspetti, la difficoltà di individuare, attraverso una serie di indicatori, lo stadio iniziale di una possibile crisi di un’impresa.

Prima di entrare nel merito degli indicatori, è necessaria una premessa. L’economia aziendale, disciplina che si occupa degli indicatori, rientra nell’alveo delle scienze sociali e studia le condizioni di esistenza e le manifestazioni di vita delle aziende. Non si tratta di una scienza esatta come può essere la matematica e la fisica; ciò implica che i fenomeni aziendali che si osservano sono certamente generalizzabili ma non possono essere definiti aprioristicamente attraverso modelli matematici. Dal punto di vista operativo quello che può apparire un limite è invece da considerare una grande “fortuna”: la tecnologia (a differenza di molti altri ambiti lavorativi) non potrà sostituire le valutazioni effettuate dai professionisti perché, tenuto conto delle molteplici variabili che influenzano l’attività aziendale, sarà sempre necessaria una disamina organica da parte di un profondo conoscitore della materia.

Tornando agli indicatori, di seguito si riportano alcune considerazioni sul debt service cover ratio (DSCR), uno degli indicatori certamente al centro del dibattito. Il DSCR è molto utilizzato nella prassi e richiede la stima dei flussi di cassa prospettici. Generalmente, si individua il flusso di cassa libero (free cash flow), per verificare se è capiente rispetto al rimborso dei debiti finanziari e agli oneri finanziari che la società deve sostenere nel medesimo arco temporale.

Innanzitutto è bene sottolineare che, nel fissare una soglia di warning, si deve tenere conto del fatto che il DSCR si utilizza in particolare quando l’impresa ha indebitamento di medio lungo termine (mutui, leasing, ecc.), mentre perde parte della sua rilevanza informativa se l’impresa ha indebitamento finanziario a breve termine. Si ipotizzi il caso di un’impresa commerciale che abbia nell’attivo solo circolante (crediti e rimanenze) e non sia ricorsa a finanziamenti a medio lungo termine. Se la società utilizza lo strumento delle ricevute bancarie salvo buon fine per finanziare il circolante operativo, il rimborso dei debiti finanziari (a seguito dell’accensione delle riba sbf) avverrà con l’incasso del credito. Poco utile sarebbe calcolare in questo caso il DSCR.

Nella prassi e dottrina si individua in media > 1,2 -1,3 il valore dell’indicatore DSCR per essere “tranquillizzante”: i flussi di cassa generati dall’impresa sono maggiori del 20-30% rispetto ai flussi previsionali in uscita per il pagamento dei debiti finanziari garantendo un minimo margine di sicurezza, in considerazione della volatilità intrinseca delle previsioni. Tuttavia, qualora l’indice sia occasionalmente < 1 non può essere automaticamente interpretato come un segnale di crisi; l’impresa infatti potrebbe far fronte agli esborsi utilizzando disponibilità liquide presenti in impresa o altre forme di finanziamento (es. scoperti di conto corrente) o ancora tale risultato dell’indicatore potrebbe derivare da un’esigenza finanziaria temporanea.

Naturalmente, in presenza di un DSCR negativo per i prossimi “n” anni, la valutazione dello stato di crisi sarebbe certamente diversa; ma anche in questo caso non sarebbe necessariamente da interpretare come un segnale di crisi qualora fosse previsto, ad esempio, il supporto finanziario per via dell’ingresso di nuovi soci. Ciò che si vuole sottolineare è che i “benchmark” definiti da qualunque indicatore offrono dei segnali di attenzione, degli spunti di riflessione ma non possono, da soli, identificare automaticamente una situazione di crisi, è necessaria sempre una valutazione a 360° dell’attività aziendale. D’altro canto il sistema bancario utilizza da anni strumenti che valutano la probabilità di default attraverso i sistemi di rating che si basano sostanzialmente su dati statistici; tali sistemi nonostante siano spesso sofisticati, non sono infallibili (e fermo restando il loro specifico obiettivo nell’ambito del processo di merito creditizio che non è la segnalazione della crisi).

Il lavoro prezioso che il CNDCEC è chiamato a svolgere è di identificare un necessario supporto per i professionisti ma, a parere di chi scrive, qualunque sia il risultato, non si potrà prescindere dalla valutazione complessiva che lo stesso professionista dovrà effettuare.