Decisiva, secondo la Provinciale di Salerno, la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non correttamente fruiti

Di Giorgio INFRANCA e Pietro SEMERARO

Non può ritenersi inesistente il credito d’imposta utilizzato in compensazione dal socio di una società di persone in caso di mancata indicazione del credito, originariamente maturato dalla società partecipata e quindi trasferito al socio partecipante, nel quadro RU della dichiarazione dei redditi di quest’ultimo; in tal caso, l’omissione da parte del socio assume carattere meramente formale e non è idonea a porre in dubbio l’esistenza del credito e il relativo diritto all’utilizzo in compensazione.
È questo, in sintesi, quanto si desume dalla lettura della sentenza C.T. Prov. Salerno n. 778/1/2019.

Il caso oggetto del giudizio origina dall’impugnazione di un atto di recupero del credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate (art. 8 della L. 388/2000), ritenuto dall’ufficio inesistente, in quanto utilizzato in compensazione dal socio senza che fosse stato previamente riportato nel quadro RU della sua dichiarazione dei redditi.

In considerazione dell’inesistenza del credito in questione, l’Agenzia delle Entrate si avvaleva del più esteso termine di decadenza ex art. 27, comma 16 del DL 185/2008, esclusivamente applicabile agli atti di recupero attinenti a crediti inesistenti (notificabili entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo) e irrogava la sanzione prevista dall’ormai abrogato art. 27 comma 18 del DL 185/2008.

Nel ricorso, il socio contestava che il credito in questione potesse ritenersi inesistente per il solo fatto che non fosse stato debitamente esposto nella propria dichiarazione dei redditi, quando invece non era mai stata contestata la spettanza e la sussistenza del credito in capo alla società partecipata.

La C.T. Prov. accoglie il ricorso proprio sul punto sollevato dal contribuente, derubricando, in sostanza, l’omesso riporto del credito nel quadro RU a mera irregolarità formale, non idonea a inficiare il diritto ad utilizzare del credito stesso. Conseguenza di ciò è che il credito in questione non può affatto ritenersi inesistente, ragion per cui, conclude la Commissione, non può neppure invocarsi il può ampio termine di decadenza del potere di accertamento, previsto dall’art. 27, comma 16 del DL 185/2008.

Ciò detto, la sentenza in rassegna si dimostra particolarmente interessante, oltre che per la peculiarità del caso di specie, anche per la presa di posizione della Commissione tributaria di Salerno in ordine alla definizione di credito d’imposta “inesistente”. Per la Commissione, infatti, può dirsi inesistente solo il credito che scaturisca da un comportamento fraudolento del contribuente, preordinato a ricreare artificiosamente i presupposti per la fruizione dello stesso.

Nel caso di specie, invece, il mero mancato riporto del credito nel quadro RU della dichiarazione del socio, non può qualificarsi alla stregua di un comportamento “fraudolento”, passibile di recupero e irrogazione della sanzione pecuniaria.
La posizione della Commissione salernitana appare coerente con la definizione di credito inesistente, inserita nell’art. 13, comma 5 del DLgs. 471/1997 a seguito della riforma del 2015, a mente del quale è inesistente il credito “in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo”.

La questione, peraltro, non è di poco momento, atteso che solo ai crediti inesistenti ex art. 13, comma 5 del DLgs. 471/1997 si applica la più gravosa sanzione dal 100 al 200 per cento e per cui risultano più lunghi i termini di accertamento; viceversa, ai crediti d’imposta fruiti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità d’utilizzo prescritte dalla legge, si applica la più tenue sanzione del 30 per cento.

La condivisibile distinzione suggerita dalla sentenza in commento è basata, come detto, sulla natura fraudolenta del credito d’imposta, pare tuttavia porsi in non perfetta armonia con la posizione della Cassazione, compendiata nella sentenza n. 10112/2017 (si veda “Inesistenza dei crediti da RU ad ampio raggio per la Cassazione” del 29 maggio 2017). Per la Suprema Corte, infatti, non sarebbe possibile distinguere in modo categorico i crediti inesistenti da quelli, più semplicemente, non spettanti, posto che “ogniqualvolta il credito derivante dall’operato investimento non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma”.

La posizione della Cassazione, a parere di chi scrive, non valorizza però in modo adeguato la distinzione normativamente prevista fra crediti inesistenti e non spettanti, ampliando in modo eccessivo le maglie per l’accesso alla disciplina deteriore.
E dunque, sebbene sicuramente necessitante di maggiori precisazioni sul piano concettuale, non può che salutarsi con favore l’arresto in commento, in cui, pur tra le righe di una motivazione particolarmente sostanzialista, si possono scorgere i primi barlumi di una maggior attenzione sul tema della corretta distinzione fra i crediti tout court inesistenti e crediti, più semplicemente, non correttamente fruiti.