Sindaci responsabili se non agiscono con la dovuta diligenza

Di Maurizio MEOLI

Il parere favorevole alla revoca dello stato di liquidazione, prospettando il recupero della continuità aziendale, può costare ai sindaci la responsabilità per l’aggravamento del dissesto della società ove reso sulla base di presupposti inconsistenti, non approfonditi con la dovuta diligenza e presto rivelatisi infondati.
A stabilirlo è il Tribunale di Milano, nella sentenza n. 1784 del 22 febbraio scorso, con riguardo ai “nuovi” sindaci di una spa in liquidazione iscritti nel Registro delle imprese cinque giorni prima di essere chiamati ad esprimere le proprie valutazioni.

Si osserva, in primo luogo, come il venir meno della continuità aziendale non integri una causa legale di scioglimento della società, ma (a seconda che sia o meno reversibile) una situazione di insolvenza o, quanto meno, di crisi. L’assenza di continuità aziendale, in particolare, costituisce uno dei più rilevanti e ricorrenti presupposti per l’avvio di quelle che nel nuovo DLgs. 14/2019 diventano procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

Crisi ed insolvenza che proprio il DLgs. 14/2019 definisce, rispettivamente, come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (art. 2 comma 1 lett. a), e come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 2 comma 1 lett. b).

L’art. 13 comma 1 del DLgs. 14/2019, inoltre, precisa che costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraverso indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. Sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi.

Ad ogni modo, come indirettamente desumibile dall’art. 2423-bis comma 1 n. 1 c.c., ove la prospettiva della continuità aziendale venga meno, i principi di redazione del bilancio non possono essere più quelli dettati dall’art. 2426 c.c., ma quelli imposti dalla prospettiva liquidatoria in cui la società, anche prima della formale constatazione di una causa di scioglimento, deve necessariamente porsi.

Nella specie, quindi, il parere dei sindaci favorevole alla revoca della liquidazione avrebbe dovuto fondarsi su una chiara recuperabilità della continuità aziendale. In relazione a tale profilo, osservano i giudici milanesi, i nuovi sindaci “non potevano non sapere” che la società era stata posta in liquidazione proprio su sollecitazione dei precedenti componenti dell’organo di controllo per l’assenza di prospettive idonee a riportare l’attività d’impresa in una condizione tale da generare utili, recuperando il pesante debito finanziario (si era ravvisata, cioè, una sostanziale insolvenza). Tale situazione, infatti, emergeva dai rilievi che i precedenti sindaci avevano trascritto nel relativo libro; per cui i nuovi controllori avrebbero dovuto verificarne il superamento sulla base di nuovi e concreti elementi.

In tale contesto, poi, la sottolineatura effettuata dai “nuovi” sindaci di essere stati iscritti nel Registro delle imprese soltanto cinque giorni prima di essere chiamati ad esprimere il parere in questione, non fa che aggravare la loro posizione, confermando come avessero manifestato la propria opinione su una questione di vitale importanza per la società in modo incauto e superficiale.

In particolare, dai fatti di causa emergeva come a fondamento di tale parere vi fosse esclusivamente un confronto con il socio di maggioranza che aveva prospettato l’intervento “salvifico” di una società – che, però, di lì a poco, sarebbe fallita – supportato da una perizia giurata di stima attestante la sostanziale praticabilità dell’operazione (perizia che, però,  sarebbe stata effettivamente visionata solo successivamente).

Di conseguenza, prosegue la decisione in commento, appare evidente come, nella specie, da un lato, la prosecuzione della liquidazione avrebbe impedito il successivo aggravamento del dissesto della società, e, dall’altro, come il presupposto della revoca della liquidazione (così come, probabilmente, della mancata reazione dei creditori ex art. 2487-ter comma 2 c.c.) fosse da ravvisare proprio nel parere reso dai nuovi sindaci.

Ad essi, quindi, è imputata la responsabilità per l’aggravamento del dissesto della società ovvero per la perdita da questa subita tra il momento della revoca della liquidazione e quello della successiva formulazione di una proposta di concordato.