Prevalgono i criteri convenzionali dell’abitazione permanente e del centro degli interessi vitali

Di Gianluca ODETTO

La valutazione della residenza fiscale presenta incertezze di rilievo per i soggetti che, pur vivendo e lavorando all’estero, non sono iscritti all’AIRE. Prescindendo dalle motivazioni che portano la persona a mantenere l’iscrizione all’anagrafe nazionale, questo comportamento può determinare problemi che superano spesso di molto i benefici sperati.

Limitando l’analisi alla normativa interna (art. 2 del TUIR), l’iscrizione all’anagrafe italiana rappresenta un elemento che attrae, per presunzione assoluta, la residenza fiscale della persona in Italia. Ciò comporterebbe, in primo luogo, l’obbligo di assoggettare a tassazione in Italia tutti i redditi prodotti (ad eccezione di quelli per cui sia eventualmente prevista su base convenzionale l’imposizione nel solo Stato della fonte). Ma con tutta probabilità l’effetto di maggiore impatto risulterebbe quello legato al monitoraggio fiscale delle attività detenute all’estero (obbligo previsto in capo ai soli residenti), il cui corretto adempimento può essere controllato in modo molto più accurato da parte dell’Agenzia delle Entrate in virtù delle procedure di scambio automatico dei dati dei conti finanziari.

Con particolare riferimento a questo aspetto, i problemi possono sorgere se la persona non iscritta all’AIRE ha presentato la dichiarazione italiana in qualità di non residente e gli viene contestata la detenzione di attività estere sulla scorta della considerazione per cui, in virtù dell’iscrizione all’anagrafe italiana, si presume la residenza in Italia; queste situazioni risultano particolarmente “ostili” in quanto riguardano spesso persone con scarsi legami con l’Italia, in possesso di abitazioni permanenti solo all’estero (o comunque in entrambi gli Stati) e con famiglia e attività lavorativa nell’altro Stato.

I problemi nascono da un filone della giurisprudenza di Cassazione (sentenze n. 21970 del 28 ottobre 2015 e n. 16634 del 25 giugno 2018) secondo cui l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente rappresenterebbe un dato formale di per sé sufficiente per stabilire la residenza italiana anche ai fini fiscali.
In realtà le pronunce della Suprema Corte non danno in alcun modo conto del rapporto tra norma interna e disposizioni convenzionali, limitandosi ad affermare (ma su questo non vi sono dubbi) che la norma interna prevede per presunzione assoluta che le persone iscritte all’anagrafe della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la propria residenza fiscale in Italia.

L’elemento della prevalenza delle disposizioni convenzionali sulla normativa interna è, invece, ben individuato da alcune pronunce della giurisprudenza di merito: nella sentenza della C.T. Reg. Milano (sezione di Brescia) n. 4207/64/14 del 31 luglio 2014 si legge, ad esempio, che la presunzione assoluta di residenza in Italia per le persone non iscritte all’AIRE è superata dall’art. 4 della Convenzione con l’altro Stato, che prevede di ricorrere, nei casi di doppia residenza, ai criteri dell’abitazione permanente e, in subordine, del centro degli interessi vitali.

Questo orientamento, del resto, è l’unico coerente con il principio, di carattere ben più generale, da cui segue la necessità per i residenti fiscali di un determinato Stato di dichiarare i redditi ovunque prodotti, rappresentato dall’onere di contribuire alla spesa di tale Stato in virtù di un collegamento rilevante con il territorio dello stesso. È evidente che questo principio, di rango costituzionale, verrebbe meno non solo nel momento in cui la persona non iscritta all’AIRE abbia pochi redditi in Italia e la maggior parte dei redditi all’estero, ma anche nei casi estremi in cui la persona sia completamente priva di redditi in Italia e non abbia in Italia elementi di “collegamento” rilevanti quali l’abitazione, la famiglia, le relazioni personali e sociali ecc.: si costringerebbe, infatti, la persona ad assolvere le imposte italiane pur in assenza di qualsiasi “interesse” verso lo Stato italiano per il solo fatto di avere con l’Italia un collegamento di natura puramente formale (l’iscrizione alle anagrafi italiane, come detto spesso mantenuta per mera dimenticanza), che peraltro verrebbe disconosciuto dall’altro Stato in una valutazione congiunta con l’Amministrazione italiana.

Queste considerazioni iniziano a far breccia non solo nella prassi dell’Agenzia delle Entrate (nella risposta a interpello n. 25/2018, pur dedicata a un soggetto iscritto all’AIRE, si legge in modo chiaro che la situazione di doppia residenza deve essere risolta in base alla Convenzione), ma anche nella stessa formulazione delle leggi: con l’art. 5 del DL 34/2019 sono state infatti estese le agevolazioni per gli “impatriati” (art. 16 del DLgs. 147/2015) e per i docenti e ricercatori (art. 44 del DL 78/2010), prevedendo al contempo una clausola di salvaguardia per il passato, a tutti i soggetti che, pur non iscritti all’AIRE, potevano vantare una residenza fiscale estera ai sensi delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, con una esplicita presa d’atto che la residenza estera è determinata in base alle Convenzioni in quanto fonte di rango superiore.