Di Giancarlo ALLIONE

Da ogni parte ci vengono ricordati gli enormi vantaggi che procurerà a professionisti e imprese la fattura elettronica. Tuttavia si racconta che San Vincenzo raccomandasse la necessità di farsi perdonare il bene che si fa, soprattutto se si tratta di beneficenza non richiesta.

Telefonini e mutande non hanno avuto bisogno di propugnatori. Da quando sono stati inventati, hanno persuaso da soli gli uomini divenendo di uso quotidiano, con standard e protocolli validi in tutto il mondo.
Se la fattura elettronica avesse vere valenze funzionali, si sarebbe già diffusa e l’Agenzia non avrebbe dovuto fare altro che uniformare comportamenti già in essere. Ma non è così, nemmeno l’arroganza delle multinazionali ha obbligato clienti e fornitori ad utilizzare una fattura elettronica, pur costruita a loro uso e consumo. Anzi, si posizionano su qualche isola del caymano e optano per la dematerializzazione totale.

Dunque a chi serve la fattura elettronica? È ovvio: serve all’Agenzia delle Entrate per i suoi controlli, che sono un primario interesse della collettività.
Non perdo tempo per ripetere che, se lo Stato ha un interesse pubblico da perseguire, e questo implica la necessità di espropriare i cittadini, questi andrebbero indennizzati, foss’anche e soprattutto se ad essere espropriato è il loro tempo lavorativo, esattamente come accade per i dipendenti pubblici, che quando lavorano per lo Stato ricevono uno stipendio.
Vorrei piuttosto provare a verificare se esiste un chiaro interesse erariale che giustifichil’esproprio in atto di tempo e risorse.

Scartiamo subito l’obiettivo di far emergere attività sommerse. Chi non faceva fatture prima non comincerà certo a farle elettroniche. Se mai, l’effetto sarà opposto. Rimane dunque l’evasione “all’interno della filiera IVA”: omesse registrazioni, doppie registrazioni di fatture passive, registrazioni di imponibili errati o aliquote errate, IVA portata illegittimamente in detrazione.
Anche sotto questo profilo la fattura elettronica appare scarsamente efficace, o meglio sembra assai di poco più efficace di uno spesometro con frequenza adeguata. I dati essenziali presenti nello spesometro consentono infatti di comparare il comportamento del cedente e del cessionario, fornendo a chi deve controllare utili indicazioni in ordine a imponibile, aliquota IVA applicata e così via.

Per andare oltre, occorrerebbe interpretare il contenuto della fattura, in altre parole, capire cosa c’è scritto dentro. E questo è assolutamente difficile da fare in modo automatico.
Il campo descrizione è un campo “testo” e quindi interpretabile da una macchina solo in modo molto approssimato, senza contare che la descrizione può ben limitarsi al riferimento ai DDT nei quali si trova il dettaglio della merce o delle prestazioni oggetto di fatturazione. DDT che, ricordo, può tranquillamente essere emesso e conservato in formato cartaceo.

Il codice articolo non è obbligatorio e, se indicato, sembrerebbe (almeno per la fattura PA è così) dover essere desunto da tabelle standard quali TARIC, CPV, EAN, SSC, idonee per descrivere categorie merceologiche, ma non per individuare singoli prodotti o prestazioni per definizione specifici di ogni azienda.
Se invece fosse possibile utilizzare il codice articolo determinato dal cedente secondo le sue più svariate e legittime esigenze aziendali, questo non significherebbe nulla se non accompagnato da una descrizione la cui interpretazione con meccanismi tipo “intelligenza artificiale” sarebbe soggetta a importanti limitazioni e rischi di errore (terminologia ultratecnica, nomi di prodotto che sono di pura fantasia, errori di ortografia…).
Se a questo aggiungiamo la platea di tutti i soggetti esonerati dall’utilizzo della fattura elettronica e le fatture provenienti dall’estero, appare subito evidente che le fatture elettroniche forniranno un dato assolutamente parziale e che uno spesometro generalizzato e completo assicurerebbe possibilità di controllo enormemente più elevate.

Vi è poi il tema dell’utilizzabilità pratica dei dati. Credo si possa escludere che l’Agenzia tutte le mattine guardi tutte le fatture di tutti emesse il giorno prima (operazione che peraltro, anche se fosse, sarebbe viziata da tutti i limiti visti prima). Dunque la ricezione dei dati attraverso uno spesometro con periodicità trimestrale potrebbe essere più che sufficiente per garantire la tempestività dei controlli e gli elementi utili per selezionare le posizioni cui richiedere dati ulteriori, quali per esempio tutte le fatture.

Da ultimo, si suole dire che la fattura elettronica serva al Governo per la formazione del bilancio statale, dal momento che conta di recuperare con la sua introduzione 3 o 4 miliardi di evasione. Ma anche qui, si tratta di una evasione che, a mio avviso, si recupererebbe assai meglio con uno spesometro obbligatorio per tutti con periodicità trimestrale. Ormai lo sappiamo fare tutti bene, l’impatto economico e organizzativo delle imprese sarebbe limitato o almeno sopportabile.

Le partite IVA attive sono 6 milioni. Il costo medio per l’introduzione della fattura elettronica, fra tempo speso e balzelli software, non sarà certo inferiore a 1.000 euro ciascuna. Se potessero scegliere, magari molte (se fossero tutte sarebbero 6 miliardi) pagherebbero volentieri i 1.000 euro direttamente allo Stato: incasso certo al posto di una ipotetica riduzione dell’evasione, continuando con lo spesometro a fare tutti i controlli che si vuole, lasciando che fascino e utilità della fattura elettronica conquistino da soli il cuore degli uomini.