Di Maria Francesca ARTUSI

La confisca di prevenzione è una misura in costante evoluzione sia dal punto di vista normativo, sia dal punto di vista giurisprudenziale.
Ai sensi dell’art. 24 del DLgs. 159/2011, tale confisca può essere disposta nei confronti dei beni di cui la persona – nei cui confronti è avviato il procedimento – non possa giustificare la legittima provenienza e di cui risulti essere titolare, anche per interposta persona fisica o giuridica, o avere la disponibilità a qualsiasi titolo. Tali beni devono essere di valore sproporzionato al reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica frutto o reimpiego di attività illecite.

Con la L. 161/2017 è stato, tra l’altro, recepito l’orientamento per cui non è possibile giustificare la provenienza semplicemente adducendo che si tratti di proventi derivanti dall’evasione fiscale (cfr. Cass. SS.UU. n. 33451/2014e Cass. n. 8389/2016).
Sebbene disciplinato all’interno del “Codice Antimafia”, si tratta di un provvedimento che viene sempre più utilizzato anche con riferimento alla criminalità economica “non mafiosa”, tra cui viene compresa anche l’evasione fiscale. Problema centrale per l’applicazione di tale misura è, allora, quello dell’accertamento della pericolosità del soggetto nei cui confronti si procede; problema ancor più urgente nel caso in cui si tratti di soggetti estranei ad un’associazione di stampo mafioso.

Va ricordato in proposito che le misure di prevenzione seguono un iter procedurale differente e parallelo rispetto a quello proprio del procedimento penale per il reato contestato. Il loro carattere special-preventivo permette di applicare misure “ante delictum”, cioè a prescindere da una vera e propria condanna penale; fatto che, ovviamente, determina molteplici conseguenze in relazione all’onere della prova, alla formazione stessa degli elementi di prova, alla disciplina della prescrizione e della retroattività.

La giurisprudenza sia italiana che internazionale è intervenuta a specificare presupposti e limiti per la definizione delle “categorie criminologiche” previste dagli artt. 1 e 4 del DLgs. 159/2011 (si vedano, in particolare, Cass. SS.UU. n. 4880/2015 e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 23 febbraio 2017).
Interessante su questo tema è anche una recente sentenza della Corte d’Appello di Torino (7 novembre 2017), relativa ad una contestazione molto articolata, connessa a condotte risalenti ad oltre 50 anni fa. Si trattava di una confisca di molti milioni di euro fondata sull’affermazione di una “pericolosità”, a sua volta “dedotta” dall’accertamento di un patrimonio sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati, asseritamente derivante da sofisticate operazioni finanziarie e societarie poste in essere in modo illecito e fraudolento.

Nel revocare il provvedimento, la Corte ribadisce qui la “imprescindibile necessità” che la pericolosità sociale sia affermata sulla base della constatazione della abituale dedizione a traffici delittuosi fondati su condanne definitive o su fatti desunti da procedimenti penali (anche se ancora in corso o conclusisi con un’assoluzione). Non è, viceversa, sufficiente la ricostruzione di condotte o comportamenti mai contestati in sede giudiziaria, soprattutto laddove manchino prove certe e inconfutabili sulla responsabilità penale e la misura di prevenzione si fondi su sospetti, indizi o interpretazioni.

Il P.M. deve provare la responsabilità in via incidentale

È, cioè, inammissibile un’inversione dell’onere della prova rispetto all’attività degli inquirenti: in altre parole, non è il proposto (il soggetto per il quale si richiede la misura) a dover dimostrare la propria innocenza, ma il Pubblico Ministero a doverne provare la penale responsabilità, seppure in via incidentale ai soli fini dell’applicazione della confisca di prevenzione.

La presunzione di illecita provenienza dei beni ha, infatti, natura relativa e alla difesa è richiesta unicamente l’allegazione di fatti, situazioni o eventi che, ove riscontrabili, siano ragionevolmente idonei ad indicare la derivazione da un’attività lecita, mentre non può essere richiesta la prova certa dell’assunto difensivo, che rischierebbe, tra l’altro, di tradursi in una “prova impossibile” (c.d. “probatio diabolica”), soprattutto nei casi in cui i fatti siano risalenti nel tempo.

Nel caso di specie, la misura patrimoniale era stata, invece, fondata dal giudice di primo grado “sulla scorta di una delle possibili letture di un passato remoto che, all’epoca, non diede luogo ad alcuna emergenza penale”.
Ciò non significa che sia decisivo il mero dato formale della incensuratezza, quanto la necessità di un accertamento effettivo della pericolosità fondata sul fatto che una persona sia stata “abitualmente dedita a traffici delittuosi”.

Come recentemente ribadito anche dalla Cassazione, il concetto di “abitualità” rilevante non può prescindere dal pregresso accertamento in sede penale dell’integrazione di delitti che danno luogo a proventi illeciti o implicanti l’esercizio di traffici parimenti connotati da modalità illecite. Ciò anche se tale accertamento non sia poi definito da una sentenza di condanna, ma mediante amnistia, indulto o prescrizione (Cass. n. 53003/2017).