Secondo la Corte Ue è eccessivo imporre al fornitore di attendere l’infruttuosità della procedura, la cui durata media supera i dieci anni

Di EMANUELE GRECO

La Corte di Giustizia Ue, con sentenza di ieri relativa alla causa C-246/16, ha stabilito che non è conforme al diritto dell’Unione l’art. 26 comma 2 del DPR 633/72 nella misura in cui, a fronte del mancato pagamento del corrispettivo di una cessione o prestazione, subordina la possibilità per il fornitore di emettere note di credito al verificarsi dell’infruttuosità di una procedura concorsuale, la cui durata media supera i 10 anni.
Poiché il fornitore ha versato l’IVA all’Erario senza averla riscossa dal proprio cliente, l’applicazione del citato art. 26 comma 2 determina per i soggetti passivi italiani “uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri” e tale squilibrio è manifestamente contrario agli obiettivi perseguiti dalle norme Ue in materia di IVA.

Il caso sottoposto alla Corte origina da un soggetto passivo nazionale che aveva effettuato cessioni di beni e prestazioni di servizi senza aver ricevuto il pagamento della fattura di vendita da parte del cessionario o committente che era stato dichiarato fallito.
Quindi, il fornitore aveva proceduto con l’emissione della nota di variazione in diminuzione ex art. 26 comma 2 del DPR 633/72 al momento in cui era stata pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento del cliente, ritenendo di non dover attendere l’esito della procedura fallimentare perché potesse affermarsi l’“infruttuosità” della stessa.
È lo stesso art. 26 comma 2 citato a richiedere che la variazione dell’IVA in diminuzione possa essere esperita, per mancato pagamento in tutto o in parte del corrispettivo, solo a causa di procedure concorsuali o procedure esecutive individuali “rimaste infruttuose”.

L’Amministrazione finanziaria ha interpretato la nozione di “infruttuosità” non ritenendo sufficiente “la mera pendenza della procedura” (risoluzione Agenzia delle Entrate n. 195/2008). Per il fallimento, nello specifico, se vi è il piano di riparto, per emettere la nota di credito bisognerebbe attendere la pubblicazione del decreto con il quale il giudice delegato stabilisce tale piano (ris. Agenzia delle Entrate n. 120/2009) o, più prudentemente, il decorso del termine entro il quale i creditori possono proporre osservazioni al piano di riparto presentato dal curatore.
Secondo la lettura dell’AIDC (norma di comportamento n. 192/2015 e circolare n. 5/2016), invece, la nota di variazione potrebbe essere emessa dal fornitore già alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, in analogia con il momento in cui viene rilevata la perdita su crediti ai fini delle imposte dirette.

In questo quadro, con la sentenza di ieri, si è pronunciata anche la Corte di Giustizia, probabilmente imponendo una revisione della normativa (o quantomeno della prassi) nazionale in argomento.
Secondo la Corte, tenuto conto che per la chiusura di una procedura fallimentare in Italia possono trascorrere anche più di 10 anni, una norma nazionale che ai fini del recupero dell’imposta contempla come requisito l’infruttuosità della procedura stessa non rispetta i principi della direttiva in tema di IVA.
Dev’essere considerato che l’art. 90 par. 2 dell’attuale direttiva (2006/112/CE) permette agli Stati membri di stabilire regole proprie, ai fini della variazione in diminuzione dell’IVA, nel caso di mancato pagamento del corrispettivo. Tale norma opera se il mancato pagamento risulta difficile da accertare o se vi è il rischio che esso sia solo provvisorio (sentenza del 3 luglio 1997, Goldsmiths, causa C-330/95).

La ratio, come evidenzia la Corte, è tenere conto dell’incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura.
Quindi, potrebbe essere sufficiente consentire l’emissione della nota di credito “allorché il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”. A questo criterio non è uniformato l’art. 26 comma 2 del DPR 633/72, anche osservando che in Italia “la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito può essere acquisita, in pratica, solo dopo una decina di anni”.
Affinché il criterio della Corte possa essere rispettato, le Autorità italiane dovranno stabilire, in ragione del diritto interno, quali siano le prove che il fornitore deve fornire per attestare la “probabile durata prolungata del non pagamento”.

Il valore della decisione resa ieri è ancora maggiore se si ricorda che un simile ricorso era stato proposto dalla C.T. Reg. Milano n. 259/19/15 (causa C-202/15), ma era stato ritirato in ragione dell’introduzione nell’ordinamento nazionale dell’art. 26 comma 9 che ammette la nota di variazione per mancato pagamento nel caso in cui si abbia la risoluzione di contratti a esecuzione continuata o periodica.
Restano, però, ancora da rivedere le regole per il momento di emissione della nota di credito in presenza di procedure concorsuali: vi aveva provveduto la legge di stabilità 2016 (L. 208/2015), prontamente “neutralizzata” sul punto dalla legge di bilancio 2017 (L. 232/2016).