La riconosciuta tassabilità dei proventi anche delittuosi comporta il superamento di ogni remora riguardo alla dichiarazione

Di MARIA FRANCESCA ARTUSI

Il reato di omessa dichiarazione può essere integrato anche quando i redditi non dichiarati derivino da attività illecite.
Così afferma la Cassazione penale, nella sentenza n. 53137 depositata ieri, in un procedimento in cui al titolare di una ditta individuale era stato contestato il delitto previsto dall’art. 5 del DLgs. 74/2000 per non aver presentato la dichiarazione dei redditi per un imponibile complessivo pari a quasi 6,5 milioni di euro su due annualità.

La norma citata – modificata dal DLgs. 158/2015 solo nelle sanzioni e nella soglia di punibilità – afferma la penale rilevanza della condotta di chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte.

Essendo, però, la condanna fondata sulla mancata dichiarazione di redditi derivanti da attività illecite, il ricorrente invoca, nel caso in esame, il principio di non autoincriminazione (conosciuto, secondo il latinismo usato dai giuristi, come il principio del “nemo tenetur se detegere”), affermato più volte anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione alle norme sull’equo processo. Secondo tale interpretazione, il privato non sarebbe tenuto a fornire all’amministrazione finanziaria prove a sé sfavorevoli: nel caso di specie, non sarebbe, cioè, tenuto a dichiarare i propri redditi illecitamente ottenuti.

Per i giudici di legittimità, invece, non sussisterebbe alcuna violazione in quanto la presentazione della dichiarazione dei redditi (quand’anche di natura illecita) non costituisce, per sé sola, una denuncia a proprio carico, ma unicamente una comunicazione inviata a fini fiscali. Solo in via eventuale a questa possono seguire accertamenti in ordine all’origine delle somme ivi esposte.

La Cassazione si era già pronunciata in tal senso affermando, ad esempio, che dovessero essere dichiarati e tassati i proventi derivanti dallo sfruttamento della prostituzione (Cass. n. 42160/2010), ovvero ritenendo che il diritto di non autoincriminazione sia recessivo rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ai sensi dell’art. 53 della Costituzione (Cass. n. 37107/2017). L’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a garanzia di un equo processo, opererebbe, dunque, solo nell’ambito di un procedimento penale già attivato (Cass. n. 12697/2015).

Il riferimento normativo di tale orientamento è l’art. 14 comma 4 della L. 537/1993 che identifica come redditi “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.
Ci si può domandare, tuttavia, quanto sia realistica tale lettura interpretativa in un caso, come quello della sentenza oggi in esame, dove l’illiceità riguarda redditi estremamente elevati, pari a diversi milioni di euro, pervenuti sul conto corrente di un soggetto che svolgeva l’attività di venditore ambulante di vestiti. Costui, peraltro, non aveva mai istituito scritture contabili, né presentato dichiarazioni fiscali, e i medesimi redditi transitavano sul suo conto per poi essere trasferiti ad altre persone. Pare, dunque, qui difficile ipotizzare che alla presentazione di una dichiarazione veritiera non sarebbero seguiti degli accertamenti sul punto.

L’obbligo di dichiarazione è connaturato al possesso di un reddito

La sentenza in commento si fonda, comunque, sulla “riconosciuta e incontestata” tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, che comporta “il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione” (Cass. n. 20032/2011).

Alcune questioni si pongono, altresì, in relazione al calcolo della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del DLgs. 74/2000 (pari a 50.000 euro, prendendo in considerazione la norma più favorevole introdotta dal DLgs. 158/2015).
La motivazione dei giudici di merito – confermata dalla Cassazione – fonda la verifica sul superamento della soglia sul fatto che, a fronte dei redditi accertati, il contribuente non aveva fornito alcun elemento tale da dimostrare un’eventuale deducibilità dei costi sostenuti (anche laddove si fosse ipotizzata la provenienza lecita del denaro in oggetto). Inoltre, non appariva verosimile il fatto che l’attività di ambulante per la vendita di abbigliamento potesse generare costi tali da incidere su redditi che avevano superato i tre milioni di euro per ciascun periodo di imposta.

A fronte di tutto ciò, la Cassazione ha confermato la condanna dell’imputato a due anni e tre mesi di reclusione, aggravata dalla condanna al pagamento delle spese processuali e dalla somma di 2.000 euro da corrispondere alla Cassa delle ammende.