La Cassazione ribadisce che non c’è forza maggiore dove c’è libertà di scelta, anche quando si tratti delle retribuzioni dei lavoratori

Il rapporto tra l’omissione del pagamento delle imposte e la crisi di liquidità di un’azienda resta un tema sempre aperto. Ciò vale sia per l’omesso versamento IVA e per l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del DLgs. 74/2000), sia per l’omissione delle ritenute assistenziali e previdenziali di cui all’art. 2 comma 1-bis del DL 463/1983.
Con due sentenze depositate ieri, la Corte di Cassazione torna su questo argomento proprio in relazione a casi in cui, a fronte della contestazione di mancato versamento all’INPS delle ritenute dovute, i datori di lavoro affermavano la propria non punibilità per la sussistenza di una causa di forza maggiore, ex art. 45c.p., dovuta a una incolpevole mancanza di liquidità (Cass. nn. 19671/2018 e 19677/2018).

Innanzitutto, viene precisato che – ad esito della modifica del DLgs. 8/2016, che ha depenalizzato le condotte inferiori ai 10.000 euro – il momento consumativo del reato si identifica in quello in cui la soglia quantitativa di non punibilità sia effettivamente superata, a prescindere che la scadenza riguardi una o più mensilità.
Il fatto illecito può, dunque, configurarsi anche attraverso una pluralità di omissioni compiute nell’ambito del medesimo periodo annuale di riferimento; sicché il delitto può essere istantaneo o di durata e, in quest’ultimo caso, a effetto prolungato sino al termine dell’anno in contestazione.

Può essere utile ricordare che è stato recentemente chiarito dalle Sezioni Unite che l’intenzione del legislatore è sostanzialmente quella di reprimere non tanto il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, quanto, piuttosto, il più grave fatto commissivo dell’indebita appropriazione, da parte del datore di lavoro, di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti, con la conseguenza che l’obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate, non rilevando, peraltro, le vicende finanziarie dell’azienda (cfr.Cass. SS.UU. n. 10424/2018).

Proprio in relazione alla situazione di crisi finanziaria, i giudici di legittimità ricordano che il reato è configurabile anche nel caso in cui si accerti l’esistenza del successivo stato di insolvenza dell’imprenditore, in quanto è onere di quest’ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all’obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull’integrale pagamento delle retribuzioni medesime (cfr., tra le altre, Cass. n. 43811/2017).

La legge affida al datore di lavoro, in quanto debitore delle retribuzioni nei confronti dei prestatori di lavoro dipendente, il compito di detrarre dalle stesse l’importo delle ritenute assistenziali e previdenziali da loro dovute e di corrisponderlo all’Erario, quale sostituto del soggetto obbligato.
In questo senso il sostituto adempie contemporaneamente a un obbligo proprio e a un obbligo altrui: di qui la conseguenza di ritenerlo vincolato al pagamento delle ritenute allo stesso titolo.
La conclusione che se ne trae è che lo stato di insolvenza non libera il sostituto, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute all’INPS, così come adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono, del resto, parte.

La condotta omissiva prevista dall’art. 2 comma 1-bis del DL 463/1983, infatti, richiede di essere accompagnata unicamente dal dolo generico, come consapevolezza e volontà dell’omissione, essendo invece irrilevante il concreto fine perseguito dall’agente con il mancato versamento. Alla luce di ciò, quando l’imprenditore, in presenza di una situazione economica difficile, decida di dare la preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti e di pretermettere il versamento delle ritenute, non può addurre a propria discolpa l’assenza dell’elemento psicologico del reato, ricorrendo comunque il citato dolo generico (foss’anche nella sua forma eventuale).

La giurisprudenza prevalente ritiene, in effetti, che il margine di scelta escluda sempre la forza maggiore (quale forza “a cui non si può resistere”), poiché tale esclusione della punibilità non può operare quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato concausato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alle singole scadenze mensili.

In particolare, la sentenza n. 19671/2018 sposa quell’orientamento per cui, in ipotesi di conflitto tra l’obbligo contributivo e il diritto dei lavoratori a percepire la retribuzione agli stessi spettante, l’imputato dovrebbe, dinnanzi al contestuale sorgere delle due obbligazioni, accantonare le somme corrispondenti al debito previdenziale, onde provvedere al versamento entro il sedici del mese successivo (Cass. n. 56432/2017; qualche apertura verso un più approfondito accertamento del dolo appare, invece, dalle motivazioni di Cass. n. 6737/2018).