Sul profitto dei reati tributari il giudice deve valutare con attenzione anche le somme recuperate dal Fisco

Di Maria Francesca ARTUSI

Nell’ambito dei rapporti tra procedure concorsuali e sequestro penale (finalizzato alla confisca), quest’ultimo prevale su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento. Ciò in quanto non si può attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge; a maggior ragione se questa è ordinata in vista della finalità sanzionatoria perseguita dalla confisca prevista per i reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato (art. 12-bis del DLgs. 74/2000).
Resta salvo il limite dell’eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato.

Così si può sintetizzare la sentenza n. 15779 della Corte di Cassazione, depositata ieri, in cui si dibatteva su un sequestro preventivo di più di 3 milioni di euro ordinato nei confronti di una srl a fronte della contestazione di compensazioni indebite utilizzando crediti inesistenti, ai sensi dell’art. 10-quater del DLgs. 74/2000 (provvedimento impugnato dal curatore fallimentare della società).
Tale interpretazione non è, tuttavia, pacifica; tanto che le stesse motivazioni della pronuncia danno conto dell’esistenza di orientamenti contrapposti.

Da un lato, vi sono pronunce che ritengono che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, di cui all’art. 12-bis del DLgs. 74/2000, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Cass. n. 45574/2018).

Diversamente, vi è chi sostiene che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12-bis del DLgs. 74/2000, prevalga sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto dell’ammissione al concordato preventivo, stante l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro (tra le altre, Cass. n. 23907/2016 e Cass. n. 28077/2017).

Tali orientamenti, in realtà, convergono nel ritenere prevalente il sequestro, laddove quest’ultimo sia intervenuto precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società, per cui il dissenso interpretativo investe essenzialmente il caso in cui, come nella vicenda oggi in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro.
Nella pronuncia n. 15779 viene precisato che l’unico limite all’operatività della confisca diretta o per equivalente, ordinata ai sensi del citato art. 12-bis, è soltanto l’eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato. Ciò comporta la necessità di un’attenta verifica da parte del giudice penale, volta ad accertare l’eventuale titolarità o meno di diritti di terzi, e, in caso positivo, le modalità della acquisizione del diritto, al fine di valutarne la buona fede.

In quest’ottica, il giudice penale, in sede di merito, dovrà escludere dalla sottoposizione a sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede.
L’esigenza di tale verifica assume una particolare pregnanza proprio nell’ambito delle procedure concorsuali, dovendosi qui scrutinare con particolare rigore, soprattutto in presenza di un attivo fallimentare, l’esistenza della somma oggetto della misura cautelare reale e la possibile coesistenza, ove dedotta dal curatore, di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro.

Se è vero infatti che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori all’integrale salvaguardia dell’attivo fallimentare, è tuttavia altrettanto innegabile che, sul piano pratico, è indispensabile circoscrivere compiutamente l’entità del profitto confiscabile, consentendo di soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale, senza però arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie, soprattutto laddove l’attivo fallimentare sia costituito da somme di denaro. In tema di reati tributari, poi, resta ferma l’esigenza di valutare anche se l’Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate dal contribuente, al fine di evitare un’indebita locupletazione da parte del Fisco, tenuto conto che, ai sensi del comma 2 del citato art. 12-bis, la confisca “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro”.

Con l’occasione viene anche ribadita la legittimazione del curatore fallimentare ad impugnare il provvedimento di sequestro, secondo quanto affermato dalle già citate Sezioni Unite (Cass. n. 45936/2019).