Da valutare con attenzione la corretta inclusione nella categoria degli immobili locati a terzi

Di Gianluca ODETTO

Anche nel contesto della rivalutazione dei beni d’impresa prevista dall’art. 1 commi 696 ss. della L. 160/2019 vige l’obbligo di rivalutare tutti i beni facenti parte della stessa categoria omogenea. Le categorie omogenee sono individuate dall’art. 4 del DM 162/2001; diversamente da quanto previsto per i beni mobili, raggruppati in categorie omogenee per anno di acquisizione e coefficiente di ammortamento, per gli immobili la distinzione è effettuata a seconda delle relative caratteristiche: le categorie sono quindi individuate nelle aree fabbricabili aventi la stessa destinazione urbanistica, nelle aree non fabbricabili, nei fabbricati non strumentali, nei fabbricati strumentali per natura e nei fabbricati strumentali per destinazione. La rivalutazione è in ogni caso ammessa solo nella misura in cui i beni in questione non rappresentino beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa.

Da questa breve ricostruzione emerge che, ad esempio, l’impresa che abbia nel proprio patrimonio sette immobili civili, nessuno dei quali utilizzato direttamente, è tenuta – se intende effettuare la rivalutazione – ad adeguare il valore di tutti questi sette immobili, essendo tutti parte della categoria omogenea dei fabbricati non strumentali. Allo stesso modo, l’impresa che detenga tre immobili di categoria C/1 locati a terzi è tenuta a rivalutarli tutti e tre, avendo questi lo status di fabbricati strumentali per natura.

Il problema si pone invece per l’impresa che, ad esempio, eserciti la propria attività industriale in un fabbricato di categoria D/1 e detenga, a latere, altri due immobili di categoria C/1 locati a terzi: ci si trova, infatti, nel dubbio di come trattare il fabbricato di categoria D/1, ed in particolare se considerarlo strumentale per natura (fatto che implicherebbe l’obbligo di associarlo ai due negozi locati nella stessa categoria omogenea) ovvero strumentale per destinazione (con conseguente inclusione in una categoria a sé). L’Agenzia delle Entrate ha espresso (da ultimo con la circolare n. 14/2017, § 5) un principio, generalmente accettato, secondo cui un fabbricato che sia contemporaneamente strumentale per natura e per destinazione si considera strumentale per destinazione, prevalendo in sostanza il concreto utilizzo che se ne fa rispetto al dato dell’iscrizione in una delle categorie catastali che qualifica l’immobile tra quelli strumentali per natura.

Laddove, come nell’esempio, l’impresa sia tenuta a rivalutare più beni appartenenti alla stessa categoria omogenea, ma abbia un concreto interesse solo per uno di essi (o solo per parte di essi), una soluzione individuata in passato (circolare Assonime n. 13/2001, § 7), ma che dovrebbe conservare una sua propria attualità, è quella di attestarsi ad un valore intermedio rispetto a quello massimo teorico di rivalutazione. Se, ad esempio, i due negozi C/1 hanno valori netti di iscrizione in bilancio di 50.000 euro (immobile A) e 115.000 euro (immobile B) e valori correnti rispettivi di 200.000 euro e 160.000 euro, e se ancora l’impresa ha interesse a rivalutare solo (o prioritariamente) l’immobile A, la scelta potrebbe cadere, ad esempio, sulla rivalutazione parametrata al 75% dei rispettivi valori correnti: così facendo, l’immobile A verrebbe rivalutato a 150.000 euro, con un’imposizione sostitutiva sul differenziale di 100.000, mentre l’immobile B verrebbe rivalutato a 120.000 euro, con conseguente obbligo per l’impresa di assolvere l’imposta sostitutiva sul solo importo di 5.000.

Pur se, a rigore, la legge non impone una perizia di stima, nei casi di rivalutazioni a valori intermedi tra quello storico e quello corrente ragioni di prudenza consigliano valutazioni molto precise da parte di un esperto indipendente.

Un altro tema che non risulta affrontato in modo espresso dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate riguarda la nozione di beni ammortizzabili nel contesto della rivalutazione. L’attuale legge prevede, infatti, un’imposizione sostitutiva del 12% per i beni ammortizzabili e del 10% per i beni non ammortizzabili, non specificando tuttavia alcunché in merito a quali norme riferirsi per individuare il confine tra le due classi.

Il problema riguarda i fabbricati civili. Tali beni, infatti, sono ammortizzati in bilancio secondo l’OIC 16 (fatto salvo il caso – che però accade con frequenza – in cui il valore residuo sia superiore al valore netto contabile), mentre non rappresentano beni ammortizzabili a norma dell’art. 90 del TUIR. Adottando, quindi, la nozione civilistica di beni ammortizzabili l’imposizione sarebbe pari al 12%, mentre adottando la nozione fiscale si scenderebbe al 10%. Le circolari Assonime n. 13/2001 (§ 1.4 e 7) e n. 23/2006 (§ 2.3) sembrano propendere per la seconda soluzione, legando la qualifica alla possibilità o meno di operare ammortamenti fiscalmente deducibili; si ritiene in ogni caso che, anche laddove l’Amministrazione non condivida questa impostazione, una eventuale soccombenza dell’impresa in sede contenziosa non possa travolgere gli effetti della rivalutazione, comportando al contrario il recupero del differenziale di imposta sostitutiva non assolto.