La condotta, quindi, deve essere valutata in relazione alla responsabilità ex art. 2394 c.c.

Di Maurizio MEOLI

Deve essere valutata in rapporto alla responsabilità di cui all’art. 2394 c.c. la condotta degli amministratori di una cooperativa a responsabilità limitata che, assegnando beni immobili ai soci della stessa in attuazione dello scopo sociale mutualistico in una situazione in cui il reale stato di perdita del capitale era stato “mascherato” tramite irregolarità di bilancio, realizzino una lesione dell’integrità del patrimonio sociale.
Occorre, infatti, confrontare tale attività con lo stato di scioglimento della società, non prontamente rilevato dall’organo di controllo, in cui gli amministratori, in violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale di cui all’art. 2486 c.c., operano in un’ottica di continuità aziendale.
Ad affermarlo è l’ordinanza n. 28613 della Cassazione, depositata ieri.

Si osserva, quindi, come, ai fini della esperibilità dell’azione di cui all’art. 2394 c.c. – oggi espressamente reso applicabile alle srl, e, per il tramite dell’art. 2519 comma 2 c.c., alle cooperative a responsabilità limitata – sia necessario che la condotta illegittima risulti fonte di pregiudizio patrimoniale per il ceto creditorio inteso nella sua generalità – tale da determinare l’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfarne le relative ragioni di credito – con dimostrazione della sussistenza di un rapporto di causalità tra pregiudizio e condotte illecite o inadempimenti ascritti, dovendosi commisurare l’entità del danno prospettato alla corrispondente riduzione della massa attiva di patrimonio (cfr. Cass. n. 15487/2000).

Non è necessaria la preventiva escussione del patrimonio sociale e non è sufficiente la dimostrazione del mancato pagamento del credito al creditore sociale che agisce, ma occorre provare la perdita della garanzia generica, rappresentata dal patrimonio sociale, subita dai creditori sociali per fatto imputabile agli amministratori e collegato all’inadempimento delle obbligazioni su di essi gravanti in ragione del rapporto che li lega alla società.

Si tratta, quindi, di un’azione ben distinta da quella di cui all’art. 2395 c.c., che ha come presupposto l’incidenza diretta del danno sul creditore (o sul terzo) che agisca per ottenere il risarcimento del pregiudizio arrecato direttamente al suo patrimonio dalla condotta illecita o negligente degli amministratori commessa a suo danno.

Ed allora, nell’azione ex art. 2394 c.c., da un lato, le condotte di mala gestio si riflettono in danno del ceto creditorio (non del singolo creditore), dall’altro, le conseguenze risarcitorie non possono andare a vantaggio di un singolo creditore, ma della società e del ceto creditorio tutto, al fine di reintegrare il patrimonio attivo della società andato perduto, anche solo in parte, per effetto delle condotte di mala gestio ascrivibili agli organi gestori e/o di controllo.

Sicché l’azione ex art. 2394 c.c. può essere proposta dai creditori, o anche solo da uno di essi in loro rappresentanza, quando il patrimonio sociale, quale massa patrimoniale attiva, per effetto della condotta degli amministratori e/o dell’organo di controllo si dimostri insufficiente al soddisfacimento dei crediti sociali; ciò al fine di reintegrarlo nella entità esistente in epoca anteriore al verificarsi dell’evento di danno imputato agli amministratori.

La nozione di insufficienza patrimoniale che il creditore deve provare è tendenzialmente individuata nella eccedenza delle passività sulle attività; ovvero in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, è insufficiente al loro soddisfacimento.
Si tratta di una condizione che non coincide con la perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza potrebbe esistere anche quando vi sia un pareggio tra attivo e passivo, con la conseguenza che tutti i creditori potrebbero soddisfarsi sul patrimonio della società nella fase di liquidazione che segue allo scioglimento della società in caso di mancata ricostituzione del capitale.

L’insufficienza patrimoniale è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, di cui all’art. 5 del RD 267/1942, quale incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendo una società trovarsi nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, ovvero, all’opposto, potendo presentare un’eccedenza del passivo sull’attivo pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste per continuare ad operare.

Il momento in cui si verifica l’insufficienza del patrimonio rilevante, dunque, non coincidendo necessariamente con il determinarsi dello stato di insolvenza, né con la situazione di perdita integrale del capitale sociale, può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione di insolvenza o all’assoggettamento dell’impresa alla liquidazione conseguente allo scioglimento (cfr. Cass. n. 21662/2018).

In ogni caso, il termine di prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c. inizia a decorrere dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale divenga “oggettivamente conoscibile” dai creditori (cfr. Cass. n. 9815/2002).