Risponde a canoni di logica desumere da tale rinvenimento il fatto che del documento esista fisicamente una copia presso chi l’ha emesso

Di Maria Francesca ARTUSI

L’art. 10 del DLgs. 74/2000 punisce la fattispecie dell’occultamento e della distruzione di documenti contabili. Si tratta di un’ipotesi speciale di falso che il legislatore ha espressamente previsto per proteggere le scritture contabili e la documentazione fiscale, di cui è obbligatoria la conservazione.

Rilevano, quindi, due condotte: la distruzione, di natura istantanea, che può concretarsi nella eliminazione del supporto cartaceo o nell’apposizione di cancellature o abrasioni; l’occultamento, consistente nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori, mediante un nascondimento materiale, che dà luogo a un reato permanente che si protrae nel tempo fino a quando cessi l’obbligo di conservazione o fino al momento dell’accertamento o, comunque, fino a quando il contribuente esibisca i documenti (cfr. Cass. nn. 4871/2006, 13716/2006 e 35665/2015).

Presupposto indispensabile è che la documentazione esista o, nell’ipotesi di distruzione, che sia stata istituita. La condotta penalmente rilevante, infatti, non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo – ovvero nel non aver tenuto le scritture in modo tale da rendere obiettivamente difficoltosa la ricostruzione della situazione contabile ai fini fiscali – bensì richiede un quid pluris costituito dall’elemento necessariamente commissivo dell’occultamento o della distruzione. La mancata istituzione può, infatti, unicamente rilevare come mero illecito amministrativo ai sensi dell’art. 9 del DLgs. 471/1997.

Con la sentenza n. 39322, depositata ieri, la Corte di Cassazione si è soffermata su un’ipotesi specifica di modalità di accertamento in relazione a tale reato.
Nel caso di specie, non erano state rintracciate presso l’imputato, quale titolare di una ditta individuale dedita ad attività edile, fatture che invece risultavano presso le ditte che avevano avuto contatti con costui.

La conservazione delle fatture è imposta, ai fini fiscali, dagli artt. 39 comma 3 del DPR 633/1972 e 22 del DPR 600/1973, oltre che, a fini civilistici, dall’art. 2214 comma 2 c.c.
Inoltre la fattura deve essere emessa in duplice esemplare di cui uno è consegnato alla parte (art. 21 comma 4 DPR 633/1972).

I giudici di legittimità ribadiscono, pertanto, che risponde a canoni di logica desumere dal rinvenimento di una fattura presso un terzo il fatto che di quel documento esista fisicamente una copia presso chi l’ha emessa e – per conseguenza – associare il mancato rinvenimento di detta copia alla circostanza di una sua distruzione ovvero di un suo occultamento, rilevanti ai sensi del citato art. 10 (si veda nello stesso senso Cass. n. 41683/2018).

In definitiva, quindi, secondo un principio già più volte affermato dalla giurisprudenza in materia, l’impossibilità di ricostruire il reddito o il volume di affari derivante dalla condotta di distruzione o occultamento non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario – come in effetti è avvenuto nel caso di specie – procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante.

Essendo in gioco il bene giuridico della trasparenza fiscale, l’illecito può essere integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire altrove elementi di prova (Cass. n. 20748/2016).

Quanto, poi, all’elemento soggettivo del reato, questo è rappresentato dal dolo specifico di evasione propria o di terzi. Nella sentenza in commento, viene così osservato che tale previsione del dolo specifico contenuta nella fattispecie di occultamento e distruzione di documenti contabili richiede la prova della produzione del reddito e del volume di affari che possono desumersi, in base a norme di comune esperienza, dal fatto che l’agente sia titolare di un’impresa commerciale (così anche Cass. n. 20786/2002 e, in tempi più recenti, Cass. n. 51836/2018).