La continuità aziendale è misurata in termini di adeguatezza dei mezzi propri e non di solidità patrimoniale e struttura finanziaria

Di Michele BANA

L’art. 2086, comma 2 c.c., in vigore dal 16 marzo 2019, stabilisce che tutte le società, indipendentemente dalla loro natura e dimensione, devono adottare adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale.

L’art. 2 del DLgs. 14/2019, formalmente applicabile dal 15 agosto 2020, ma costituente già un valido principio interpretativo, definisce la crisi come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per l’impresa si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici ad adempiere regolarmente le obbligazioni pianificate: il piano industriale e finanziario riveste, quindi, un ruolo centrale nell’individuazione della c.d. insolvenza prospettica.

I criteri di accertamento di tale concetto di crisi sono ulteriormente precisati dall’art. 13, comma 1 del DLgs. 14/2019, che ricorre all’utilizzo di specifici indici idonei a fornire evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi, e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso oppure, quando la durata residua del periodo amministrativo al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi seguenti. Peraltro, questo orizzonte temporale inferiore all’esercizio potrebbe indurre a valutazioni non aderenti alla realtà nel caso delle imprese esercenti un’attività stagionale, oltre a non essere coerente con le tempistiche previste dal principio di revisione ISA Italia 570 sulla continuità aziendale.

Ai suddetti fini, sono considerati “indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi”. Sotto il primo profilo, si dovrebbe ritenere che il riferimento non sia ai soli interessi finanziari sulle passività, ma anche alla quota capitale delle stesse, coerentemente con il principio generale della sostenibilità del debito: in altri termini, si dovrebbe porre a confronto, nell’orizzonte temporale prospettico considerato (almeno sei mesi), il flusso di cassa atteso a servizio del debito e la posizione finanziaria netta, verificando che il relativo rapporto sia almeno pari a 1, altrimenti non risulta soddisfatta la condizione di sostenibilità di cui all’art. 13, comma 1 del DLgs. 14/2019.

Relativamente al secondo aspetto, non convince il richiamo dell’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi, alla luce della lettura sistematica dei commi 1 e 2 dell’art. 13 del DLgs. 14/2019, che sembra attribuire rilevanza a tale indicatore in ordine alla segnalazione delle prospettive di continuità per l’esercizio in corso, per una serie di motivazioni:
– i debiti dell’impresa non sono tutti uguali, ma possono avere un valore qualitativo completamente differente, a seconda che siano a breve termine o di medio-lungo periodo;
– le prospettive di continuità aziendale si misurano meglio con l’analisi della solidità patrimoniale, verificando la sussistenza di un adeguato grado di correlazione temporale nel finanziamento degli investimenti, tramite lo studio del margine di struttura, coerentemente con il principio di revisione ISA 570.

In altri termini, è maggiormente utile verificare, non il rapporto tra patrimonio netto e debiti, bensì se l’attivo immobilizzato è integralmente finanziato dal capitale proprio e, eventualmente, dalle passività consolidate (fondi per rischi e oneri, trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato e quota dei debiti scadente oltre l’esercizio successivo).
Si osservi, inoltre, come tali indicatori abbiano natura esclusivamente finanziario-patrimoniale, prescindendo dalle risultanze di Conto economico, in linea con la suddetta definizione finanziaria di crisi.

L’art. 13 comma 2 del DLgs. 14/2019 attribuisce altresì al CNDCEC il compito di elaborare con cadenza almeno triennale, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica secondo le classificazioni ISTAT, gli indici di cui al comma 1, che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa. Appare, tuttavia, improprio il richiamo alla distinzione in base all’attività economica: diversamente, potrebbe essere opportuna una differenziazione in virtù della dimensione dell’impresa, e non soltanto del settore.

La valutazione unitaria degli indici richiamata dal comma 2 dell’art. 13 del DLgs. 14/2019 dovrebbe far ritenere che, ai fini dell’individuazione dello stato di crisi, non sia sufficiente l’inosservanza di solo uno dei due parametri individuati dal precedente comma 1. Peraltro, i due indici hanno un peso specifico diverso: considerato che i debiti si pagano con le disponibilità liquide, e non con il patrimonio netto, si dovrebbe ritenere che l’inadeguatezza dei mezzi di terzi rispetto a quelli propri – circostanza abbastanza frequente nelle PMI italiane – non sia sufficiente ad accertare uno stato di crisi, soprattutto se l’impresa manifesta un buona capacità di produzione di flussi di cassa, idonei a garantire il regolare pagamento, alle scadenze concordate, delle passività.