In caso di mancato accordo verrebbe meno da subito l’esenzione da ritenuta sugli interessi, sui dividendi e sulle royalties
Il recesso senza accordo del Regno Unito dall’Unione europea, che avrebbe quale data prospettata il prossimo 12 aprile, porrebbe una serie di adempimenti e di costi significativi anche nel comparto delle imposte sui redditi.
L’accordo che le parti avevano formalizzato lo scorso 14 novembre 2018 prevedeva, infatti, agli artt. 126 e 127 una fase transitoria in cui, salvo eccezioni, il diritto dell’Unione avrebbe continuato ad applicarsi; questo periodo transitorio era destinato a durare sino al 31 dicembre 2020.
Nel momento in cui da oltremanica si confermi la strada della c.d. hard Brexit questa salvaguardia verrebbe meno, per cui già dal 13 aprile il Regno Unito, semplificando volutamente, risulterebbe anche ai fini delle imposte sui redditi uno Stato extracomunitario.
Le conseguenze non sarebbero significative per le persone fisiche, per le quali già di regola la doppia imposizione internazionale risulta evitata, o alleviata, in base alla Convenzione Italia-Regno Unito.
Il vero problema riguarderebbe, invece, le transazioni cross border delle società, le quali sono oggi regolate da disposizioni, ben più efficaci di quelle della Convenzione, previste dalle direttive comunitarie. Attualmente, questi flussi reddituali sono esenti da imposizione nello Stato della fonte in virtù della direttiva 49/2003/CE, per quanto riguarda interessi e royalties, e della direttiva 2011/96/UE, riguardante i dividendi.
Tra i presupposti per l’applicazione di queste disposizioni risulta la residenza del pagatore e del percipiente in uno “Stato membro”, circostanza che viene a cadere in modo immediato nel momento in cui il Regno Unito receda unilateralmente, senza più il “cuscinetto” del periodo transitorio.
Lo status di Londra risulterebbe, in questo contesto, paradossalmente peggiorativo rispetto ad alcuni Stati non facenti parte dell’Unione (ad esempio, la Svizzera), i quali hanno siglato con l’Unione stessa appositi accordi per applicare tali direttive in virtù dell’ampiezza dell’interscambio commerciale e finanziario.
Dal punto di vista pratico, il quadro che si prospetta risulta critico sia per le società italiane che agiscono in qualità di pagatori, sia per le società italiane che percepiscono redditi di fonte inglese.
Per le prime, il pagamento verrebbe in sostanza effettuato in favore di una società extracomunitaria, per cui non si potrebbe fare valere l’esenzione dall’imposta italiana prevista dagli artt. 26-quater e 27-bis del DPR 600/73. La società dovrebbe applicare le ritenute previste dalla Convenzione Italia-Regno Unito (ipotizzando, naturalmente, che sussistano i relativi requisiti) e quindi prelevare l’imposta italiana nella misura:
– del 15% (o del 5%, per le partecipazioni che conferiscono almeno il 10% dei diritti di voto), per i dividendi;
– del 10%, per gli interessi (fatta eccezione, naturalmente, per i ricorrenti casi in cui essi non risultano tassati in Italia in capo ai non residenti);
– dell’8%, per le royalties.
Cambiano anche gli aspetti procedurali, in quanto l’applicazione delle ritenute convenzionali deve essere richiesta alla società italiana presentando, rispettivamente, i modelli A, B o C approvati con il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 10 luglio 2013, e non con i modelli E o F, dedicati alle società che fanno ricorso alle direttive comunitarie.
La situazione dovrebbe risultare speculare per le società italiane che ricevono redditi di fonte britannica dal prossimo 13 aprile, le quali sarebbero incise dalle ritenute inglesi. Questo fatto darebbe origine “solo” a scompensi di tipo finanziario (oltre a ovvi costi di compliance) per gli interessi e le royalties: l’imposta estera, infatti, verrebbe detratta da quella italiana a norma dell’art. 165 del TUIR, andando questi costi a concorrere in modo integrale alla formazione del reddito.
La situazione risulterebbe invece critica per i dividendi: anche ipotizzando, infatti, la ritenuta ridotta di 5 euro per ogni 100 euro percepiti per le partecipazioni “qualificate”, essa rimarrebbe a carico della società italiana per 4,75 euro, posto che solo il 5% di essa (la percentuale corrispondente a quella di imponibilità degli utili) risulterebbe detraibile e che la prassi dell’Agenzia delle Entrate è ferma nel sostenere l’indeducibilità dell’eccedenza.
Resterebbe, da ultimo, da valutare con estrema attenzione (anche in capo alle società italiane nella veste di sostituti d’imposta) il caso dei pagamenti a società comunitarie controllate da holding inglesi, in quanto le recenti sentenze della Corte di Giustizia del 26 febbraio 2019 (cause C-116/16 e C-117/16 per i dividendi, nonché cause C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16 per gli interessi e le royalties) hanno espresso principi restrittivi, finalizzati a evitare gli abusi delle direttive nel momento in cui i beneficiari finali siano soggetti non residenti nell’Unione.