Per alcune sentenze, è reato compensare il credito derivante da dichiarazione omessa

Di Alfio CISSELLO e Maurizio MEOLI

In ambito tributario è pacifico, specie a seguito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 17757 del 2016, il seguente principio: il sistema di neutralità dell’IVA impone di affermare che il contribuente può portare in detrazione un credito derivante da una precedente dichiarazione considerata omessa (quindi mai presentata o presentata oltre il termine dei novanta giorni), nella misura in cui venga dimostrata l’effettività del credito stesso. Non è, in conseguenza, legittima la condotta dell’Agenzia delle Entrate consistente nel disconoscere, in via automatica, la detrazione dell’IVA solo perché la dichiarazione da cui la stessa emerge è stata omessa, affermando che l’unica maniera per recuperare il credito sarebbe la domanda di rimborso.

Sebbene ai fini IVA l’assunto sia rinvigorito dai principi comunitari di neutralità dell’imposta, lo stesso è stato a chiare lettere sostenuto anche in tema di credito relativo a imposte sui redditi (cfr. Cass. 12 maggio 2017 n. 11828) e, molto recentemente, per le perdite fiscali (cfr. Cass. 12 dicembre 2018 n. 32076).
Alcune sentenze, per quanto ci consta allo stato attuale solo di merito (cfr. C.T. Reg. Cagliari 26 aprile 2018 n. 377/1/18), si sono spinte ad affermare che non possono nemmeno essere contestate le sanzioni amministrative da indebita compensazione di crediti esistenti, siccome una condotta che, come sancito dalla giurisprudenza, appare lecita, non può condurre all’applicazione di sanzioni.

Rimangono, invece, senza dubbio, le sanzioni (a seconda dei casi) amministrative o penali da omessa dichiarazione; ma questo è un altro argomento, inerendo ad una violazione ontologicamente diversa.
Sul versante penale, poi, occorre fare i conti con la fattispecie di cui all’art. 10-quater del DLgs. 74/2000. Tale disposizione punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versi le somme dovute utilizzando in compensazione crediti “non spettanti” per un importo annuo superiore a cinquantamila euro (comma 1), e con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versi le somme dovute utilizzando in compensazione crediti “inesistenti” per un importo annuo superiore a cinquantamila euro (comma 2).

A fronte di tali complessive indicazioni, è stato comunque affermato che l’indebita compensazione del credito che origina da una dichiarazione omessa darebbe luogo al reato di indebita compensazione di crediti esistenti ma non spettanti (cfr. Cass. pen. 25 settembre 2018 n. 41229). Addirittura, secondo un diverso, e maggiormente rigoroso, orientamento, sarebbe integrata l’indebita compensazione di crediti inesistenti (cfr. Cass. pen. 3 ottobre 2018 n. 43627).

Si intende, secondo la prima tesi, per credito non spettante quel credito che, pur eventualmente certo nella sua esistenza e nel suo esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile o non più utilizzabile in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario (così anche Cass. pen. 26 gennaio 2015 n. 3367). E, secondo i giudici di legittimità penale, l’omessa dichiarazione impedirebbe il controllo sulla spettanza dello stesso.

Tali conclusioni appaiono censurabili ed ispirate ad un eccessivo formalismo: se è certo che l’omessa dichiarazione dà sempre luogo a sanzioni, essa non impedisce affatto di verificare la spettanza del credito; non a caso, secondo l’Agenzia delle Entrate, ove il contribuente dimostri l’esistenza contabile dello stesso (esibendo dunque registri, fatture e ogni altra documentazione utile), il tutto può essere chiuso nel contraddittorio successivo all’avviso bonario, pagando le sanzioni ridotte da indebita compensazione, senza necessità di riversare il credito (circ. Agenzia Entrate 25 giugno 2013 n. 21).
Se così è, appare maggiormente criticabile la tesi che addirittura ravvisa nella condotta in questione la fattispecie di indebita compensazione da inesistenza del credito.

Vero è che i rapporti tra procedimento tributario e processo penale sono governati dal doppio binario, ma, in uno Stato di diritto, non si dovrebbe consentire che un contribuente sia penalmente sanzionato in ragione di una condotta ritenuta lecita dalla sezione tributaria della Cassazione; o, quantomeno, che non causa la perdita del credito (secondo l’Agenzia delle Entrate).

L’imputato, volendo considerare ogni ipotesi, potrebbe invocare la scriminante dell’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.), in particolare per l’IVA, considerato che il disconoscimento del credito da dichiarazione omessa è stato ritenuto contrastante, in via unanime, con la neutralità dell’imposta.