Secondo l’Agenzia delle Entrate, è possibile disapplicare i limiti dell’art. 172 del TUIR se i patrimoni “reali” delle società eccedono le perdite da trasferire

Di Gianluca ODETTO

Le risposte a interpello n. 93 e 94 di ieri, 5 dicembre 2018, evidenziano un cambio di rottasignificativo dell’Agenzia delle Entrate in merito alla disciplina del riporto delle perdite fiscali nelle fusioni: l’Agenzia chiarisce, in particolare, che le perdite possono essere trasferite all’incorporante anche se non sono rispettati i requisiti dell’art. 172 comma 7 del TUIR (legati alla “vitalità” della società che le ha prodotte e al suo patrimonio netto contabile), purché venga in altro modo dimostrata l’operatività e la capacità produttiva della società e il valore reale degli asset trasferiti con la fusione sia superiore alle perdite stesse.
Le due risposte a interpello hanno ad oggetto, rispettivamente, il riporto delle perdite fiscali e delle eccedenze ACE (risposta n. 93/2018) e il riporto delle eccedenze di interessi passivi non dedotti (risposta n. 94/2018), fatti che rientrano tutti nell’ambito applicativo dell’art. 172 comma 7 citato.

Il primo interpello riguarda la fusione tra due banche, perfezionata la quale la società incorporata è risultata “vitale” in base ai parametri dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica e del costo relativo al lavoro dipendente, ma ha rilevato un patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio inferiore a quello delle perdite fiscali e delle eccedenze ACE.

Il secondo documento ha, invece, ad oggetto un’operazione di MLBO a seguito della quale una società italiana ha costituito una società veicolo ad hoc per l’acquisizione della partecipazione in una società americana, perfezionata con i fondi prestati alla controllata dalle banche, e ha successivamente fuso per incorporazione la società veicolo. Le eccedenze di interessi oggetto dell’interpello sono quelle preesistenti all’opzione per il consolidato esercitata dalle due società, e hanno trovato un ostacolo, che ha dato origine alla richiesta avanzata all’Agenzia, nel fatto che la società incorporata, in modo speculare a quanto accaduto nell’altro caso, aveva un patrimonio netto contabile capiente, ma nonrisultava “vitale” né in base al parametro dei ricavi, né in base a quello del costo per lavoro subordinato.

Entrambi i documenti richiamano l’orientamento, ormai consolidato in capo alla prassi dell’Agenzia delle Entrate ma messo in discussione da alcune sentenze di merito, secondo cui il requisito della vitalità deve essere rispettato non solo sino all’esercizio precedente a quello in cui la fusione viene deliberata, ma anche nel periodo interinale che intercorre tra la chiusura di tale esercizio e la data di effetto della fusione.

Ciò premesso, la risposta positiva che è stata data in entrambi i casi deriva essenzialmente da due ordini di fattori.
Il primo è rappresentato, come era logico aspettarsi, dalla validità delle ragioni gestionali sottese alla fusione, che autorizzano quindi a ritenere che questa non è stata perfezionata al solo (o principale) scopo di trasferire all’incorporante le perdite. Nel caso delle due banche, l’incapienza del patrimonio netto contabile è stata determinata da svalutazioni contabili dei crediti alla clientela derivanti da una cattiva gestione pregressa: l’Agenzia delle Entrate ha correttamente preso atto che queste svalutazioni sono espressione di un percorso di risanamento (i crediti erano, presumibilmente, rimasti iscritti ai valori storici per evitare di pregiudicare la capitalizzazione della società) sfociato proprio nella fusione, la quale ha permesso di continuare con maggiore efficienza e risultati l’attività della società incorporata (la quale, peraltro, non aveva mai smesso, anche prima dell’operazione, di “fare banca”).

Nel secondo caso l’Agenzia delle Entrate, dopo aver richiamato l’orientamento, formalizzato nella risoluzione n. 143/2008, per cui l’assenza di dipendenti non è di per sé indice di assenza di “vitalità”, ha dato il giusto valore al fatto che, nell’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, la società incorporanda non ha percepito dividendi dalla controllata statunitense, ma il flusso di dividendi è stato invece ininterrotto nei sette anni precedenti, ed è poi continuato (a favore, chiaramente, della società incorporante) dopo la fusione tra le due società italiane.

Ma l’elemento – anche questo comune alle due risposte – maggiormente innovativo deriva dal richiamo alla Relazione al “vecchio” TUIR, la quale giustificava le limitazioni al riporto delle perdite (poi esteso al trasferimento delle eccedenze di interessi e delle eccedenze ACE) con l’esigenza di evitare che, per mezzo della fusione, “si trasmettano deduzioni del tutto sproporzionate alle consistenze patrimoniali delle società fuse o incorporate”. Questo principio viene reinterpretato nel senso per cui, ogniqualvolta il patrimonio netto a valori reali dell’entità trasferita risulta superiore alle attività per le quali, potenzialmente, operano le limitazioni di legge (perdite, eccedenze di interessi ed eccedenze ACE), la norma contenuta nell’art. 172 comma 7 del TUIR può essere disapplicata.
Ciò è avvenuto per la banca in considerazione della valorizzazione del portafoglio crediti secondo l’IFRS 3 e per la società veicolo dell’operazione di MLBO in virtù del fatto che le eccedenze di interessi acquisite dall’incorporante con la fusione “si accompagnano all’asset partecipativo nella società USA (acquisita anch’essa con la fusione, ndr), peraltro avente un valore di mercato di molto superiore al beneficio fiscale”.