Non bastano mere divergenze tra amministratori o reazioni nervose in CdA
La Cassazione, nella sentenza n. 7587/2016, ha precisato che, nelle società di capitali, la revoca delle deleghe conferite all’amministratore delegato, decisa dal cda, deve essere assistita da “giusta causa”, anche in applicazione analogica dell’art. 2383 comma 3 c.c., sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti.
Il caso di specie, anteriore alla riforma del diritto societario, vedeva l’amministratore delegato di una cooperativa a responsabilità limitata subire la revoca delle deleghe in seguito, tra l’altro, a divergenze insorte con i restanti membri del cda. Veniva, quindi, presentato ricorso al Tribunale per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla anticipata interruzione del rapporto senza giusta causa, ex art. 2383 comma 3 c.c., da ritenersi applicabile anche al caso di specie. Il Tribunale riconosceva all’amministratore il risarcimento richiesto (ovvero i compensi che avrebbe dovuto percepire fino alla scadenza dell’incarico).
La Corte d’Appello, di contro, adita dalla società, dichiarava insussistente tale diritto, poiché la delega sarebbe sempre revocabile, ad nutum, da parte del cda, senza che il delegato possa invocare il principio dettato dall’art. 2383 comma 3 c.c. Ciò in quanto la libertà di revoca delle deleghe da parte del cda deriverebbe dal dovere di vigilanza cui sono tenuti gli amministratori, connettendosi non a un rapporto di mandato, ma a un’ipotesi tipica di autorizzazioneall’esercizio “singolare” dei poteri amministrativi che normalmente spettano all’intero collegio.
Determinante, quindi, sarebbe la diversità del rapporto che intercorre tra assemblea dei soci ed amministratori, rispetto a quello che lega il cda ai singoli amministratori delegati. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il cda, con la delega, non si spoglia dei suoi poteri e, nonostante la delega, conserva una competenza concorrente ad amministrare, che rimane integra ed è anzi sovraordinata rispetto a quella degli organi delegati, ai quali può anche sostituirsi nel compimento di atti inerenti alle funzioni delegate.
Sicché, il rapporto che si costituisce con i delegati non può qualificarsi come mandato oneroso – rispetto al quale opererebbe la regola dell’art. 1725 c.c. analoga a quella sancita dall’art. 2383 c.c. – ma come atto interno di organizzazione, come tale insindacabile dal giudice (cfr. Trib. Milano 16 ottobre 2006 e Trib. Roma 22 gennaio 2014 n. 1543).
Deceduto, poi, l’amministratore “ex” delegato, erano gli eredi a presentare ricorso per Cassazione, alla luce di altra ricostruzione orientata in senso contrario alla soluzione accolta dai giudici d’appello (cfr. Trib. Milano 12 maggio 2010 e Trib. Milano 24 maggio 2010 n. 6836).
La Cassazione, come evidenziato, ha ritenuto applicabile l’art. 2383 comma 3 c.c. e ha rinviato il tutto alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, per l’applicazione del sopra enunciato principio di diritto.
I giudici di merito, quindi, sono stati chiamati a valutare in concreto la sussistenza della giusta causa a fondamento della revoca delle deleghe all’amministratore delegato.
Nella sentenza n. 1071/2017, non sono state considerate circostanze tali da giustificare una giusta causa di revoca delle deleghe: generiche divergenze di opinioni e vedute manifestatesi in seno al cda; il dichiarato dissenso circa gli orientamenti espressi dal cda in materia di politica gestionale e, in particolare, circa le scelte in tema di destinazione degli utili sociali (ciò anche in ragione del fatto che la destinazione adottata non aveva avuto conseguenze negative per la gestione della società – non potendosi, quindi, ravvisare alcuna conseguenza sul rapporto di fiducia tra cda ed amministratore delegato – e che, se è vero che la scelta di destinazione degli utili competeva all’amministratore delegato, il cda avrebbe anche potuto limitarsi a proporre all’assemblea dei soci una destinazione degli utili diversa da quella individuata dall’amministratore delegato); l’avere lasciato scadere, in qualità di amministratore delegato di altra società del gruppo, i termini per un adempimento, trattandosi di vicenda della quale lo stesso avrebbe dovuto semmai rispondere all’altra società; la contrarietà da parte dell’amministratore delegato a essere affiancato da un collaboratore, dal momento che nessuno, meglio dell’interessato, è in grado di valutare l’opportunità di essere, o meno, affiancato da un collaboratore e, in caso positivo, di scegliere la persona ritenuta adatta; comportamenti sconvenienti tenuti nel corso di una riunione del cda (quali gettare in aria carte o perseverare in una lunga e vivace discussione), essendo confinati a estemporanee e accese espressioni nell’ambito di una discussione nella quale i partecipanti non erano tutti d’accordo e sostenevano le opposte opinioni.
Ad ogni modo, occorre considerare che contestazioni meramente strumentali e formulate solo innanzi al Tribunale, ovvero a fronte della richiesta dell’amministratore del pagamento in proprio favore degli emolumenti dovuti per il periodo compreso tra la revoca e la cessazione dell’incarico, e non contenute nel verbale del cda recante la delibera di revoca, sono insufficienti a sorreggere alcuna pretesa di giusta causa.