Il pagamento non basta quando non vi sono elementi o criteri per imputare i versamenti proprio all’imposta oggetto della contestazione

Di Maria Francesca ARTUSI

La riforma del diritto penale-tributario operata dal DLgs. 158/2015 ha introdotto, tra l’altro, una speciale causa di non punibilità per alcuni reati connessa al pagamento dei debiti tributari.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 del DLgs. 74/2000, non sono più perseguibili penalmente gli omessi versamenti di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis del DLgs. 74/2000), gli omessi versamenti dell’IVA (art. 10-ter del DLgs. 74/2000) e l’indebita compensazione di crediti non spettanti (art. 10-quater comma 1 del DLgs. 74/2000), quando il contribuente versi integralmente le somme dovute all’Erario, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi maturati, prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado. L’integrale pagamento degli importi dovuti può anche avvenire a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.

Viene altresì previsto (art. 13 comma 3 del medesimo decreto) che, se prima dell’apertura del dibattimento di primo grado il debito tributario fosse in fase di estinzione mediante rateizzazione, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. A tale termine può essere sommata un’ulteriore proroga discrezionale motivata del giudice (“qualora lo ritenga necessario”).

Sulla nozione di “pagamento integrale” la giurisprudenza è stata sin da subito chiamata in causa.
La Corte di Cassazione ha innanzitutto precisato che tale causa di non punibilità trova applicazione anche con riferimento ai fatti commessi precedentemente all’entrata in vigore del DLgs. n. 158/2015 (22 ottobre 2015) e ai procedimenti in corso a tale data, anche qualora, alla data predetta, fosse già stato aperto il dibattimento di primo grado purché si sia verificato il citato presupposto dell’integrale pagamento del dovuto (Cass. nn. 30139/2017 e 40314/2016).

La preclusione temporale non può, infatti, operare in quei casi in cui la più favorevole disciplina, introdotta in pendenza del procedimento, debba essere applicata a tutti gli imputati che hanno correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni: questi devono, infatti, avere la possibilità di essere “rimessi in termine” per provvedere al pagamento al fine della conseguente estinzione del reato.

Tuttavia, per ritenere dimostrato il pagamento dell’imposta dovuta in relazione a una determinata annualità e non versata, in presenza di una transazione fiscale contemplante una obbligazione di pagamento derivante dall’omesso pagamento di più imposte e in mancanza di criteri di imputazione dei vari ratei nei quali è stata suddivisa tale obbligazione, non è sufficiente il versamento di alcuni ratei, quando non vi sono elementi o criteri per imputare i versamenti proprio all’imposta oggetto della contestazione del reato addebitato al ricorrente (Cass. n. 40217/2018).

È stata così negata l’applicabilità della causa di non punibilità in un caso in cui il legale rappresentante di una spa – condannato a sei mesi di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 10-ter DLgs. n. 74/2000, per aver omesso di versare, entro il termine previsto per il pagamento dell’acconto IVA per il periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa al 2009 per l’ammontare di 512.355 euro – aveva corrisposto, a seguito della conclusione di una transazione fiscale, somme di ammontare superiore all’imposta di cui gli era stato contestato l’omesso pagamento.

Ciò perché dal solo pagamento delle prime due rate nelle quali era stato suddiviso il più elevato debito originario, frazionato in quattro rate, non poteva trarsi la prova del pagamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta per l’anno in questione.
Costui aveva, in effetti, provveduto a pagare la somma di 1.018.538,36 euro a seguito di una transazione conclusa con l’Agenzia dell’Entrate, corrispondente alle prime due delle quattro rate nelle quali era stata ripartita la somma concordata come dovuta, superiore – come si è detto – all’imposta sul valore aggiunto di cui gli era stato addebitato l’omesso versamento; circostanza che tuttavia non è stata ritenuta idonea a considerare estinto tale debito per la mancanza di criteri di imputazione nella transazione fiscale.

Difetterebbe infatti – secondo tale impostazione giurisprudenziale – il presupposto dell’integrale pagamento delle somme originariamente dovute o di quelle diverse concordate con l’Amministrazione finanziaria, come richiesto dal citato art. 13.