Salvo i casi di manifesto comportamento ingannatorio, l’esterovestizione dovrebbe restare circoscritta all’area amministrativa quale illecito tributario

Di Massimo BOIDI e Ciro SANTORIELLO

Rappresenta una consolidata prassi degli organi verificatori, in presenza di verbali che contestino la c.d. “esterovestizione”, procedere con un’attribuzione “forzata” di una partita IVA italiana, a cui segue, per l’ovvio superamento dei limiti (50.000 euro per ogni singola imposta), una denuncia alla Procura della Repubblica per il reato di omessa dichiarazione ex art. 5 del DLgs. 74/2000.
Si cercherà invece di evidenziare come questo automatismo penale non sia così scontato e anzi, in mancanza di determinati elementi di base, manchi proprio il presupposto del dolo, che, al contrario, caratterizza in modo chiaro la fattispecie di cui al citato art. 5.

Con questa premessa sarebbe allora forse più opportuno dire che l’esterovestizione è, di regola, illecito di natura amministrativa e, solo in presenza di determinate condizioni e presupposti, può diventare rilevante anche a fini penali.
In proposito, va considerato che il comma 13 dell’art. 10-bis della L. 212/2000 dispone che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”. Tale disposizione, secondo la Cassazione, impone di considerare le condotte di elusione fiscale prive di rilevanza penale, in quanto fra i comportamenti elusivi finalizzati esclusivamente all’abbattimento dell’imponibile e gli illeciti penali tributari corre un rapporto di mutua esclusione, nel senso che un’ipotesi di elusione può essere configurata solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione del DLgs. 74/2000.

In sostanza, una volta riconosciuta la natura elusiva della condotta del contribuente, nei confronti dello stesso non possono muoversi rimproveri di rilevanza penale e ciò in quanto “la disciplina dell’abuso del diritto trova applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l’evasione e la frode, … fattispecie [che] vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre” (Cass. nn. 40272/2015 e 41755/2015).

Questa conclusione incontra un’unica eccezione, giacché il ricorso alla sanzione penale ritorna attuale quando il comportamento del contribuente sia caratterizzato da fraudolenza, simulazione e inganno. In sostanza, il confine fra condotte elusive, aventi rilevanza solo in sede amministrativa tributaria (art. 10-bis comma 13 della L. 212/2000), e quelle penalmente rilevanti è segnato dalla circostanza che il contribuente abbia o meno posto in essere comportamenti fraudolenti, ingannevoli, mendaci nei confronti del Fisco. Se tali circostanze non sono rinvenibili, allora deve escludersi la sussistenza di una fattispecie criminosa, quale che sia in sede tributaria la qualificazione che voglia darsi dell’attività negoziale posta in essere dal privato; quando invece si riscontri tale capacità ingannatoria nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, allora è possibile sostenere una sua responsabilità penale.

Si pensi al soggetto che dichiari al Fisco di aver trasferito la propria azienda o parte della stessa all’estero omettendo di conseguenza di presentare in Italia le previste dichiarazioni; al contempo, però, le indagini svelano che il contribuente ha rappresentato agli organi competenti una situazione diversa da quella reale, dichiarando falsamente che all’estero ha sede ed opera il board organizzativo dell’azienda o che all’estero sono presenti diversi stabilimenti operativi, ecc.: in questi casi ricorre il delitto di omessa dichiarazione.
Se da un lato è relativamente agevole l’interpretazione del comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR, che opera attraverso presunzioni relative, il comma 3 del medesimo articolo prevede lunghi e complicati accertamenti di fatto in tema di “sede di amministrazione effettiva”, non conosciuti, conoscibili o anche solo ipotizzabili dal contribuente italiano al momento della costituzione della società estera.

Salvo quanto sopra evidenziato, non dovrebbe per nulla scattare l’obbligo di denuncia penale in tutti quei casi in cui la prova della residenza in Italia sia il risultato di una mera interpretazione giuridica, senza fondamenti legati a palesi e conclamate violazioni di legge oppure quando la “sede di amministrazione effettiva” sia ricondotta in Italia, forzando artatamente (rectiusconfondendo), ad esempio, l’attività di direzione e coordinamento, che spetta al soggetto controllante italiano. Tali interpretazioni risultano poi alquanto complicate quando la società estera sia generatrice di passive incomes, per i quali non si rende assolutamente necessaria una struttura organizzativa particolarmente complessa, propria invece delle società industriali o commerciali.

Medesimo ragionamento vale per il comportamento del contribuente che, negli anni contestati, ha presentato regolari bilanci nel Paese di residenza, con tanto di dichiarazioni fiscali e pagamento di imposte, poche o tante che siano.
Esiste in questo caso il dolo specifico del reato di cui al citato art. 5? Si può imputare a distanza di anni un reato, laddove la norma in questione prevede l’omissione della dichiarazione per un soggetto solo se conscio di “esservi obbligato”? O contestare, sempre a distanza di anni, che un soggetto giuridico avrebbe dovuto auto-considerarsi fiscalmente residente in Italia?

A parere di chi scrive, si può affermare che, fatti salvi i casi di manifesto comportamento ingannatorio, il fenomeno dell’esterovestizione dovrebbe rimanere circoscritto all’area amministrativa quale illecito tributario.
Il dubbio è che la contestazione del reato sia stata, soprattutto per il passato, lo strumento per consentire l’utilizzo del raddoppio dei termini ai fini di gettito; sarebbe però necessario che nel contenzioso pendente il giudice tributario valutasse con attenzione gli elementi posti a base della denuncia, specie in caso di archiviazione o assoluzione ai fini penal-tributari, così da annullare quegli accertamenti eventualmente riferibili ad annualità ormai cadute in prescrizione.