Per il calcolo del profitto non si possono usare presunzioni derivanti da accordi con l’Agenzia delle Entrate

Nell’ambito di un reato di truffa rilevante per la responsabilità degli enti ex DLgs. 231/2001, il profitto è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal delitto ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto contrattuale che si è illecitamente instaurato.

Tale principio, già enunciato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 26654/2008, trae origine dalla distinzione tra “reati-contratto” e “reati in contratto”, intendendo per tali, rispettivamente, il caso in cui il negozio giuridico risulti integralmente illecito (ad esempio, società che operano nel traffico di stupefacenti) e il caso in cui, invece, il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto, ma incide sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (ad esempio, truffa finalizzata all’aggiudicazione di un appalto).

Questa distinzione ha notevoli conseguenze sulla determinazione della somma effettivamentesequestrabile (e poi confiscabile), come viene ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 23896depositata ieri.
Si trattava, nel caso di specie, di reati di frode nelle pubbliche forniture, truffa, gestione illecita di rifiuti e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, posti in essere nell’ambito di un contratto di appaltorelativo alla raccolta di rifiuti in diversi Comuni.
Il GIP competente aveva disposto il sequestro di più di 20 milioni di euro in capo alla società appaltatrice nel cui interesse e vantaggio si riteneva tali illeciti fossero stati commessi; sequestro che era stato, poi, ridotto a 663.751,50 euro sul presupposto che parte dell’attività svolta avesse realmente giovato ai Comuni appaltanti.

La Corte di Cassazione conferma l’impostazione del Tribunale del riesame e la necessità della riduzione del sequestro, mentre ritiene non corretto il criterio di calcolo seguito per addivenire alla somma effettivamente sequestrata.
Innanzitutto viene ribadito che, nel caso in cui il reato presupposto ex DLgs. 231/2001 sia un “reato in contratto” (come sopra definito), il profitto dovrà essere determinato secondo un duplice criterio: da un lato, facendo riferimento a tutti i vantaggi di natura economico-patrimoniale che costituiscono diretta derivazione dall’illecito (c.d. concezione causale del profitto), senza, però, superare l’incremento effettivo del patrimonio conseguito; d’altra parte, non potranno essere aggrediti i ricavi derivanti da prestazioni lecite svolte a favore dell’altro contraente.

In altre parole, dal prezzo indicato nel contratto (al “lordo”) dovranno essere defalcate (e non confiscate) le somme riscosse dall’ente pari all’effettiva utilità conseguita dal danneggiato, ovvero al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico.

Tale valore (o utilità) deve essere commisurato ai soli “costi vivi”, concreti ed effettivi, che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale.
Al fine di determinare questi “costi vivi” sostenuti dall’ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l’Autorità giudiziaria potrà avvalersi, ad esempio, degli accertamenticompiuti dalla Polizia giudiziaria, delle indicazioni di un tecnico che tengano conto sia delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell’ente, che del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, nonché di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili, limando cifre artatamente maggiorate.

Tutto ciò premesso viene, pertanto, escluso dai giudici di legittimità che, nel caso in esame, lo scorporo dei costi vivi potesse fondarsi su basi presuntive derivanti dagli atti di adesione della società in questione intervenuti con l’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento delle violazioni tributarie, in un contesto riferibile a reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti, dove erano stati indicati costi considerati dalle parti come indeducibili ai fini fiscali (relativi a prestazioni fatturate ma non effettivamente eseguite).

D’altra parte, la Cassazione chiede al giudice del rinvio di prendere in considerazione – ai fini della rideterminazione del profitto del reato – il fatto che le operazioni di compostaggio e di biostabilizzazione connesse alla gestione dei rifiuti siano state effettuate o meno e che il procedimento sia avvenuto in maniera lecita o meno.