Il documento di CNDCEC e FNC esamina lo stato dell’arte: nelle more di un processo irto di ostacoli, Ue e Italia hanno concepito una «web tax al 3%»

Con il documento “La fiscalità nell’economia digitale. Problematiche e scenari possibili”, pubblicato nella giornata di ieri, CNDCEC e Fondazione nazionale dei commercialisti offrono un’utile disamina dello stato dell’arte, a livello nazionale, comunitario e globale, di una disciplina fiscale che è tutta in divenire, nel tentativo di recuperare il tempo perduto rispetto alle evoluzioni compiute negli ultimi anni dal settore economico su cui deve trovare applicazione.

Il documento di ricerca ricorda anzitutto gli interventi a monte delle misure implicitamente (quella italiana) o esplicitamente (quella comunitaria) transitorie di “web tax al 3%” sulle transazioni digitali.
In particolare, ci sono le indicazioni OCSE/G20 nell’ambito della “Azione 1” dei BEPS (Base Erosion and Profit Sharing), ai sensi delle quali si propone di:
– modificare l’elenco delle eccezioni alla definizione di stabile organizzazione per garantire che ciascuna di esse sia limitata alle attività che sono di carattere preparatorio o ausiliario e introdurre una nuova regola anti-frammentazione;
– modificare la definizione di stabile organizzazione per affrontare talune situazioni che possono interessare le vendite on line;
– intervenire sulle regole CFC per includere nel reddito da assoggettare a tassazione in capo alla società controllante estera quello prodotto dall’impresa controllata operante nell’economia digitale.

A queste indicazioni si aggiunge il più recente attivismo della Commissione europea, che ha elaborato la proposta di direttiva COM(2018) 147 final del 21 marzo 2018, il cui obiettivo è quello di introdurre nella definizione di “stabile organizzazione” il concetto di “presenza digitale significativa” (in acronimo “PDS”) quale nesso di imponibilità del reddito prodotto in un determinato Paese, nonché di definire i criteri per l’attribuzione del profitto a tale PDS.
Come evidenziato dal documento, si tratta di un approccio completamente innovativo che guarda non tanto all’ubicazione delle strutture dell’impresa, materiali e umane, dedicate alla produzione dei servizi digitali o al mantenimento dell’interfaccia digitale a cui accedono gli utenti, quanto al luogo in cui sono ubicati gli utenti stessi.

Nella proposta di direttiva, una PDS si configura quando l’attività svolta in uno Stato membro è costituita in tutto o in parte dalla fornitura di servizi digitali (presupposto oggettivo) e risulta soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni:
– ricavi derivanti da servizi digitali resi a utenti situati nello Stato membro superiori a 7 milioni di euro nel periodo di imposta;
– numero di utenti (privati o imprese) dei servizi digitali situati nello Stato membro superiore a 100.000 nel periodo di imposta;
– numero di contratti commerciali (cioè conclusi con imprese dello Stato membro) superiore a 3.000 nel periodo di imposta.

L’apprezzabile spirito innovativo della Commissione Ue sul concetto di “presenza digitale significativa” quale alter ego digitale della “stabile organizzazione tradizionale” è però destinato a rimanere frustrato fino a quando le Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni stipulate dai singoli Paesi non accoglieranno questa innovazione che ben si sposa peraltro con le indicazioni dell’OCSE nell’ambito dell’Azione 1 dei BEPS.

Infatti, come ricorda il documento, le regole della proposta di direttiva COM(2018) 147 final si applicano esclusivamente nei confronti delle società residenti nella Ue e delle società residenti in Paesi extra-Ue con i quali non risulta stipulata alcuna convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni; mentre, per le società residenti in Paesi extra-Ue con i quali la convenzione bilaterale è stipulata, l’innovazione si applica a condizione che la convenzione preveda a sua volta regole simili.

Una eventualità – aggiungiamo noi – che non sembra purtroppo destinata a potersi realizzare a brevissimo, considerata la fortissima azione di lobby che le cosiddette “multinazionali del web” hanno condotto in questi anni, con la piena copertura politica di Paesi importanti come gli Stati Uniti, al punto che le indicazioni OCSE concernenti l’aggiornamento in ottica digitale della definizione di stabile organizzazione non sono state comprese tra le modifiche oggetto della Convenzione multilaterale OCSE volta a implementare in modo coordinato e unitario, nelle singole convenzioni bilaterali, le misure convenzionali per prevenire l’erosione della base imponibile e il trasferimento di utili verso Stati a bassa fiscalità.

Per questo, nelle more di un processo che si appalesa ancora irto di ostacoli, tanto l’Unione europea, quanto individualmente l’Italia, hanno nel frattempo concepito una “web tax al 3%” sulle transazioni aventi per oggetto servizi digitali.
Quella comunitaria è disciplinata dalla proposta di direttiva COM(2018) 147 final e, salvo cambiamenti durante l’iter di approvazione, si pone l’obiettivo di entrare in vigore a decorrere dal 2020.
Quella italiana è disciplinata dall’art. 1 commi 1011-1019 della L. 205/2017 e dovrebbe entrare in vigore “a decorrere dall’1 gennaio dell’anno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di cui al comma 1012”. Complice anche la complessa situazione politica, va segnalato che è decorso inutilmente il termine ordinatorio del 30 aprile 2018 entro cui, secondo quanto previsto dall’art. 1 comma 1012 della L. 205/2017, avrebbe dovuto essere emanato il decreto di attuazione della disciplina della c.d. “web tax italiana”, ragione per cui la prospettata entrata in vigore a decorrere dal 2019 è oggi quanto mai incerta.

Resta il fatto che, senza misure più o meno apprezzabili e più o meno condivisibili di “web tax transitorie”, nulla potrà in concreto essere fatto fino a quando non si interverrà a livello convenzionale in sede OCSE.
E infatti, come ricorda anche il documento di CNDCEC e FNC, pure tentativi di legislazione nazionale, come quello di inserire nell’art. 162 comma 1 del TUIR una norma di ambigua formulazione antielusiva (che, ai sensi della nuova lett. f-bis) introdotta dalla legge di bilancio per il 2018, va a ricomprendere nella nozione di stabile organizzazione “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso”), sono destinati a poter incidere assai poco, perché di nuovo, senza un cambiamento delle norme convenzionali internazionali, misure come questa possono al più trovare applicazione solo nei confronti di soggetti residenti in Paesi con i quali l’Italia non ha stipulato alcuna convenzione contro le doppie imposizioni.