In attuazione del principio di «riserva di codice», la fattispecie viene trasferita dalla normativa antiriciclaggio al codice penale

Il 6 aprile scorso è entrato in vigore il DLgs. 21/2018 con cui viene data attuazione al principio di “riserva di codice”, in base al quale le nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia (art. 3-bis c.p.).

Secondo questa prospettiva, vengono “spostate” all’interno del codice penale una serie di fattispecie tra cui quella di indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento, oggi inserita nell’art. 493-terc.p. Tale norma prevede la punibilità, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro, di chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri utilizza indebitamente, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi; falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi; possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.

Fin dalle sue origini, la materia è stata strettamente connessa a quella dell’antiriciclaggio, tanto è vero che le medesime condotte erano sanzionate dapprima dall’art. 12 del DL 143/1991 (provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) e poi all’art. 55 del DLgs. 231/2007 (attuale normativa antiriciclaggio).

Come precisato anche dalla relazione ministeriale che accompagna lo schema di decreto, si tratta, tuttavia, di una disposizione del tutto estranea al testo normativo dedicato alla prevenzione del riciclaggio, dal momento che è un reato comune, indipendente dalla qualifica di soggetto obbligato ai sensi del DLgs. 231/2007. La fattispecie viene oggi compresa tra i delitti contro la fede pubblica (Titolo VII del codice penale), con particolare riguardo alla “falsità in atti”; viene, così, ribadito il rilievo pubblicistico delle condotte di indebito utilizzo e di falsificazione delle carte di credito e di pagamento, che comprende ma supera la lesione al patrimonio del soggetto direttamente danneggiato (reato plurioffensivo).

D’altronde, l’art. 4 del DLgs. 21/2018, che introduce il nuovo art. 493-ter c.p., è intitolato “Modifiche in materia di tutela del sistema finanziario”. Il bene protetto resta, dunque, la certezza e l’affidabilità nell’uso degli strumenti di pagamento diversi dal denaro contante; o anche l’interesse pubblico a che il sistema elettronico di pagamento venga usato in maniera corretta a garanzia della fede pubblica e a prevenzione del riciclaggio.

Per “utilizzo indebito” si intende quello effettuato da chi non è il titolare delle carte, in mancanza del consenso ovvero contro la volontà del legittimo possessore. Talvolta è stato ritenuto “indebito” l’utilizzo anche laddove vi fosse l’autorizzazione del titolare, in quanto sarebbe necessaria anche la legittimazione contrattuale conferita dall’istituto emittente.
Per quanto riguarda la falsificazione e l’alterazione, potrà essere soggetto attivo anche il titolare medesimo della carta che ne modifichi dati fondamentali (come limiti quantitativi o temporali).

È ugualmente punibile chi possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi. Si ritiene che tale espressione comprenda anche la “illiceità civile”, cioè derivante da una violazione contrattuale (ad esempio, quando il rapporto con l’istituto emittente sia cessato per scadenza o revoca). Proprio tale elemento potrebbe distinguere la condotta in esame dal delitto di ricettazione di cui all’art. 648 c.p. (Cassazione penale n. 289/2018).

Le varie condotte descritte si pongono talvolta al confine con altre fattispecie, tra cui – oltre alla ricettazione – la frode informatica, il riciclaggio, la truffa e l’appropriazione indebita.
Va ricordato che tale delitto non richiede per la sua integrazione l’ottenimento di un profitto o il verificarsi di un danno; non è, cioè, richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine. Si parla in particolare di reato di pericolo presunto e, ancora di recente, la giurisprudenza ha precisato che l’utilizzazione di una carta “bancomat”, di provenienza furtiva, da parte di chi non sia in possesso del codice PIN, realizzata mediante la digitazione “casuale” di sequenze numeriche presso uno sportello di prelievo automatico di denaro, è sufficiente ad integrare la fattispecie (Cass. n. 17923/2018).

In caso di condanna o di patteggiamento è prevista la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e la confisca, anche per equivalente, del profitto o del prodotto del reato (art. 493-ter comma 2 c.p.).