Il procedimento penale in materia di reati tributari si configura del tutto autonomo rispetto al processo e all’accertamento che avvengono nell’ambito tributario. Tale principio si fonda su quanto previsto dall’art. 20 del DLgs. 74/2000 ove si prevede che il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possano essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente a oggetto i medesimi atti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
Dall’autonomia dei procedimenti deriva che le verifiche del giudice penale possono anche sovrapporsi o porsi in contrasto con quelle effettuate dinanzi al giudice tributario, ma resta innegabile il rapporto di coordinazione che comunque permane soprattutto a livello dell’utilizzazione del materiale probatorio.

Centrale è il principio del libero apprezzamento di ciascun giudice, a cui si ricollega la tematica della circolazione delle “prove” tra i due differenti canali; sia con riguardo alla trasmigrazione dal processo penale a quello tributario, sia nel caso inverso. Nell’affrontare tali aspetti vanno, però, tenute in considerazione le particolari e stringenti garanzie che attengono alla procedura penale.

Problemi di interazione emergono, ad esempio, nei casi di presunzioni legali previste dalle norme tributarie (si pensi alla presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie non dichiarate rispetto al delitto di omessa dichiarazione ex art. 5 del DLgs. 74/2000).
In ambito tributario si assiste qui ad un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, inammissibile nel corso di un processo penale. Dal punto di vista dell’accertamento del reato, tali presunzioni possono, perciò, assumere esclusivamente il valore di dati di fatto che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa: dette presunzioni, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in altri elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti (Cass. n. 30890/2015).

Tuttavia, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal DLgs. 74/2000, esse possono assumere un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale (Cass. n. 25451/2016).
Altra tematica più volte emersa nell’esperienza pratica è quella del caso in cui, nel corso di un’attività di verifica fiscale emergano “indizi di reità” a carico di una persona che ha rilasciato delle dichiarazioni ai funzionari della Guardia di Finanza.

La giurisprudenza, ormai consolidata, ritiene che in questa ipotesi debba trovare applicazione la disciplina dettata dal codice di procedura penale in tema di interrogatorio ed acquisizione di sommarie informazioni. Deve, ad esempio, essere assicurata la presenza del difensore, pena l’inutilizzabilità delle informazioni così acquisite.

In un caso affrontato dalla pronuncia della Cassazione n. 38858/2016 i legali rappresentanti ed amministratori di una società erano stati indagati per alcuni illeciti fiscali (in particolare per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture ex art. 2 del DLgs. 74/2000 e mediante altri artifizi ex art. 3 del medesimo decreto), emersi nell’ambito di una verifica operata dai Finanzieri.
Era stata così applicata la misura del sequestro preventivo per equivalente sui beni degli indagati, ma la difesa aveva presentato ricorso per Cassazione, lamentando, tra l’altro, che le informazioni da parte degli indagati erano state assunte senza procedere nelle forme previste per l’interrogatorio, e dunque in violazione degli artt. 64 e 350c.p.p. Pertanto, ne derivava l’inutilizzabilità dell’accertamento fiscale compiuto dalla GdF e del PVC conseguente (ai sensi dell’art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale).

Il punto di discrimine rispetto alla necessaria applicazione delle garanzie penali risiede nel momento in cui emergono degli “indizi di reità”, cioè elementi da cui si possa ragionevolmente dedurre (o sospettare) che sia stato commesso un fatto penalmente rilevante (valutazioni su cui ovviamente incide anche il superamento della soglia di punibilità ove prevista).
A ciò si collega direttamente la questione della natura e del valore probatorio del verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza. Questo rappresenta pacificamente un atto amministrativo extraprocessuale, non essendo previsto dal codice di rito né dalle norme di attuazione dello stesso; in quanto tale, esso sarebbe acquisibile e utilizzabile nel processo ai fini probatori, in base all’art. 234 c.p.p.

Seguendo, tuttavia, l’impostazione della Cassazione, la parte del verbale, formatasi successivamente all’emersione degli indizi di reità, non è più qualificabile come “documento” e non potrà assumere efficacia probatoria (Cass. n. 4919/2015).