Secondo l’AIDC, la rinuncia non produce reddito imponibile in capo al socio-amministratore

Di Silvia LATORRACA

Con la norma di comportamento n. 201, l’Associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili ha formulato ulteriori considerazioni in merito al trattamento fiscale applicabile in caso di rinuncia al trattamento di fine mandato (TFM) da parte degli amministratori, discostandosi dall’orientamento recentemente fornito dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione del 13 ottobre 2017 n. 124.

Per quanto attiene agli amministratori, il TFM può essere riconducibile a redditi assimilati al lavoro dipendente (ipotesi, questa, considerata dalla norma di comportamento) oppure a redditi di natura professionale.
In entrambi i casi, la tassazione segue il criterio di cassa, con imposizione al momento della percezione.

Ad avviso dell’AIDC, la mancata percezione del compenso (situazione che si verifica in caso di rinuncia) non manifesta capacità contributiva e, di conseguenza, non comporta il manifestarsi di alcun presupposto impositivo, secondo quanto statuito dall’art. 1 del TUIR, in forza del quale “presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’articolo 6”.

La tesi del c.d. incasso giuridico, fatta propria dalla C.M. 73/94 e – più di recente – dalla giurisprudenza di legittimità, sarebbe, dunque, in contrasto con il dettame costituzionale.
Peraltro, secondo la norma di comportamento, la reale motivazione della sentenza della Cassazione n. 1335/2016 era quella di evitare ipotetici salti d’imposta e il previgente art. 88 comma 4 del TUIR (che all’epoca dei fatti regolamentava la fattispecie) prevedeva in ogni caso l’irrilevanza reddituale in capo alla società delle rinunce ai crediti da parte dei soci.

Per contro, il presupposto impositivo si realizza quando, pur in assenza dell’incasso monetario, la rinuncia al credito vantato dall’amministratore sia indirettamente collegata a una controprestazione di qualsiasi natura (in forma di beni o servizi differenti dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore.
Si deve, quindi, affermare che dalla mera remissione della posizione creditoria non può conseguire una presunzione automatica di incasso dei relativi importi, conseguenza che si determina solo nell’ipotesi in cui si realizzi un incremento patrimoniale o reddituale oggettivamente riconoscibile e fiscalmente riconosciuto.
Tanto premesso, nell’ipotesi di amministratore non socio, la mera remissione del debito non comporta alcun beneficio in capo all’amministratore e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. Conseguentemente, non si determina alcun effetto reddituale in capo all’amministratore.

Per contro, la società, laddove abbia dedotto, ai sensi dell’art. 105 comma 4 del TUIR, le quote del TFM, imputate a Conto economico a titolo di accantonamento, realizza una sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88 comma 1 del TUIR.
Tali conclusioni non si discostano rispetto ai chiarimenti forniti dalla risoluzione n. 124/2017.

Maggiori problematiche in caso di amministratore-socio

Maggiori problematiche si riscontrano, invece, in caso di amministratore-socio.
Secondo la risoluzione n. 124/2017, infatti, i crediti rinunciati – che si intendono giuridicamente incassati – devono essere assoggettati a tassazione in capo ai soci persone fisiche non imprenditori, con conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte da parte della società.

La società partecipata, invece, in riferimento alla quale trova applicazione l’art. 88 comma 4-bis del TUIR, non deve tassare alcuna sopravvenienza attiva, posto che non è ravvisabile alcuna differenza tra valore fiscale e valore nominale dei crediti rinunciati.
Sotto questo profilo, l’AIDC si discosta dall’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, la quale appare motivata da richiami giurisprudenziali antecedenti alla modifica normativa operata dal DLgs. 147/2015.
In particolare, ad avviso della norma di comportamento, la mera remissione del debito non comporta alcun beneficio per l’amministratore socio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. La mancata percezione rende l’operazione fiscalmente ininfluente per l’amministratore, ancorché socio, in quanto non gli attribuisce alcun vantaggio economico. Il credito così rinunciato ha un valore fiscale nullo, posto che la fattispecie reddituale sottostante non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell’amministratore.

Il semplice fatto che la remissione del credito comporti un arricchimento della società e, di conseguenza, indirettamente anche della partecipazione del socio/amministratore, è ininfluente al fine della quantificazione del valore fiscale del credito rinunciato, perché lo stesso processo di arricchimento indiretto del socio si verifica per qualsiasi sopravvenienza attiva goduta dalla società. La valorizzazione della quota non è, invero, di per sé elemento assimilabile all’arricchimento (fiscalmente rilevante), giacché questo interverrà solo nel momento eventuale e successivo in cui il maggior valore della partecipazione dovesse essere effettivamente realizzato e conseguito.

Ne consegue che, per l’amministratore, la rinuncia del credito non comporta un incremento del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione ex art. 94 comma 6 del TUIR.
Per quanto riguarda la società, che imputa a patrimonio netto l’ammontare del credito rinunciato dall’amministratore-socio, il vigente art. 88 comma 4-bis del TUIR determina una sopravvenienza attiva imponibile, da assoggettare a imposizione mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi.

Tali conclusioni sarebbero conformi, secondo l’AIDC, alla volontà del legislatore, ovvero assicurare l’uniformità di trattamento alle diverse ipotesi di rinuncia dei crediti dei soci, nonché alla relativa Relazione illustrativa.