La Cassazione si sofferma sulle condotte ex art. 216 e 223 del RD 267/1942

Di Maria Francesca ARTUSI

La Corte di Cassazione conferma la condanna per i reati di bancarotta nel “caso Cirio”. Con la corposa sentenza n. 4400 depositata ieri, si conclude (salvo che per uno dei numerosi imputati) il procedimento iniziato a seguito del noto fallimento che ha coinvolto migliaia di risparmiatori. I giudici si soffermano sulle condotte di bancarotta (artt. 216 e 223 del RD 267/1942) realizzate con operazioni volte al passaggio di finanziamenti infragruppo che portarono, di fatto, all’aumento esponenziale del debito nei confronti delle banche. In particolare, agli imputati veniva contestato il trasferimento di risorse da alcune società del gruppo in favore delle controllanti o di altri soggetti, l’acquisizione di partecipazioni in società estere operanti in settori commerciali non produttivi e la cessione di partecipazioni sopravvalutate all’interno del gruppo.

Il dissesto sarebbe, così, derivato dall’aggravamento dell’indebitamento bancario, sostituito dal ricorso al mercato mediante emissione di obbligazioni e terminato nella irrecuperabilità dei crediti verso le società controllanti (riportati in bilancio nonostante la loro inesigibilità). Tale circolo vizioso era, infine, emerso con l’impossibilità di pagare le prime obbligazioni in scadenza nel 2002.

Rispetto al reato di bancarotta fraudolenta, la Cassazione ritiene che il fallimento costituisca una condizione obiettiva di punibilità e sia pertanto estraneo alla sfera di volizione del soggetto (Cass. n. 13910/2017). Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, la bancarotta impropria da reato societario (art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/1942) richiede, infatti, che l’evento sia previsto e voluto dall’agente come conseguenza del proprio operare; occorre, cioè, una volontà protesa al dissesto, non quale intenzionalità dell’insolvenza, ma come consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori.

La bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/1942), invece, richiede il dolo generico riguardo al compimento delle operazioni, ma, relativamente al fallimento, richiede solo la sua astratta prevedibilità (Cass. n. 32352/2014). Il fallimento determinato da tali operazioni configurerebbe, perciò, un’eccezionale ipotesi di fattispecie preterintenzionale, per cui l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell’operazione a cui segue il dissesto (Cass. n. 633/2018).

Viene, inoltre, ribadita l’irrilevanza della sussistenza o meno di uno stato di insolvenza del gruppo all’epoca dei fatti contestati; essendo sufficiente, per la distrazione penalmente rilevante, che la condotta abbia cagionato il depauperamento dell’impresa attraverso la destinazione di risorse per impieghi estranei all’attività della stessa.

Su questa tematica si innesta anche quella dei c.d. “vantaggi compensativi” delle operazioni infragruppo: perché possa essere esclusa la punibilità del fatto è necessario che le operazioni contestate abbiano prodotto benefici indiretti sulle società “depauperate” e che tale depauperamento sia solo temporaneo, risultando un saldo finale positivo (Cass. n. 46689/2016).

Riguardo alla circostanza della duplice fusione per incorporazione, la sentenza in commento ricorda come la giurisprudenza civile assimili l’estinzione per fusione alla cessazione dell’esercizio di impresa ai fini dell’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 10 del RD 267/1942, per cui il fallimento può essere dichiarato entro un anno dalla cancellazione dal Registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo.

Senza fallimento non ricorrerebbe la condizione obiettiva di punibilità, perciò il giudice penale è tenuto a verificare se la fusione abbia una natura reale e se la stessa si sia tradotta o meno in un’effettiva cessazione dell’attività dell’impresa incorporata. Nel caso di specie il carattere fittizio veniva dedotto da una serie di elementi sintomatici: l’ininterrotta prosecuzione dell’attività della preesistente società, il permanere dello stesso oggetto di detta attività e del medesimo azionista di riferimento, l’anomalia della fusione di una società di rilevanti dimensioni in altra che constava di un unico dipendente, il fatto che l’incorporante dopo pochi giorni avesse assunto la denominazione sociale dell’incorporata. Da tale continuità, formale e sostanziale, deriva la riferibilità della dichiarazione di insolvenza anche all’attività delle società incorporate (e dunque, penalmente, la configurabilità del reato di bancarotta).

Altro aspetto toccato dalla sentenza riguarda la sopravvalutazione delle azioni di una società estera e la mancata indicazione in bilancio dell’inesigibilità dei crediti delle controllate, che, seppur elementi di natura valutativa, rimangono penalmente rilevanti anche dopo la riforma delle false comunicazioni sociali operata dalla L. 69/2015 (Cass. SS.UU. n. 22474/2016).
Viene, infine, negata fondatezza alla questione di legittimità costituzionale relativa all’interpretazione estensiva che ritiene applicabile anche ai fatti di bancarotta societaria l’aggravante del danno di rilevante entità, prevista dall’art. 219 del RD 267/1942.