Secondo la Cassazione non si applicano ai messaggi telefonici le garanzie previste per le intercettazioni

Di Maria Francesca ARTUSI e Stefania MARASCIUOLO

Nell’ambito di un procedimento penale è possibile il sequestro a fini probatori dei contenuti dell’applicazione di messaggistica istantanea per smartphone WhatsApp.
L’ha affermato la Cassazione in un procedimento relativo ai reati fallimentari (Cass. n. 1822/2018), ritenendo che tali dati informatici (anche se telefonici) abbiano natura di documenti ai sensi dell’art. 234c.p.p. e, pertanto, non siano sottoposti ai limiti previsti per le intercettazioni.

Il ricorso riguardava il sequestro del telefono cellulare e dei dati informatici memorizzati (sms, messaggi WhatsApp, email) e la questione di diritto sottoposta al giudice di legittimità atteneva alla procedura di acquisizione del materiale probatorio applicabile.
Secondo il codice di procedura penale, le conversazioni intercorse per via telematica possono infatti essere soggette a diverse modalità di acquisizione, a seconda della tipologia: documenti (art. 234 c.p.p.); corrispondenza (artt. 254 e 254-bis c.p.p.); intercettazioni (art. 266-bis c.p.p.).

Maggiori garanzie sono previste per le intercettazioni, la cui acquisizione è subordinata, ad esempio, alla sussistenza di gravi indizi di reità per la quasi totalità dei delitti; minori per il sequestro della corrispondenza (per cui vi sono comunque tutele quali un limite di tempo stabilito – 48 ore – entro il quale, se non vi è disposizione del sequestro da parte del pubblico ministero, gli oggetti di corrispondenza devono essere immediatamente inoltrati); minime, infine, per l’acquisizione dei documenti.

Può essere utile ricordare in proposito che il DLgs. 216/2017, da poco pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ha apportato alcune modifiche alla disciplina delle intercettazioni per una maggiore tutela delleconversazioni tra privati.
In particolare l’art. 1 comma 1 del decreto introduce un nuovo reato (art. 617-septies c.p.), che punisce con la reclusione fino a quattro anni chi, allo scopo di recare danno all’altrui immagine o reputazione, diffonde riprese di incontri privati o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, salvo il caso in cui la diffusione derivi dalla diretta utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per diritto di difesa o di cronaca.

Mentre l’acquisizione di messaggi di posta elettronica già ricevuti o spediti dall’indagato e conservati nelle rispettive caselle di posta rientra tra le attività di intercettazione (cfr. Cass. n. 40903/2016), per i messaggi di WhatsApp e gli sms rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, la disciplina da applicarsi – secondo un’interpretazione non del tutto condivisibile seguita anche dalla sentenza in commento – è quella relativa alle prove documentali, in quanto tali conversazioni “non rientrano nel concetto di corrispondenza, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito” (così Cass. n. 928/2016).

Da ciò deriva che, per le conversazioni di WhatsApp (sequestrate ex post rispetto al momento in cui la conversazione è realmente avvenuta), non sono applicabili due importanti garanzie invece previste per le intercettazioni.
In primo luogo, la sentenza in commento ritiene inconferente il richiamo al principio posto a garanzia della libertà del difensore, secondo cui “sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato” (art. 103comma 6 c.p.p.).
L’art. 2 lett. a) del DLgs. 216/2017 ha ulteriormente rafforzato questa tutela vietando non solo l’utilizzo a fini probatori delle conversazioni tra difensore e assistito, ma addirittura la trascrizione, anche sommaria.

Secondariamente, ma non di minore importanza, le conversazioni WhatsApp – seppure qualificate come documenti – possono contenere riferimenti a fatti e situazioni private delle parti del processo o di terzi, irrilevanti rispetto al fatto storico da provare, che dovrebbero essere eliminati con un’udienza di “stralcio” in quanto inutilizzabili, come è disciplinato in materia di intercettazioni (l’art. 2 lett. d) del DLgs. 216/2017 ha addirittura vietato la trascrizione delle registrazioni dei fatti giudicati irrilevanti, salvo decreto motivato del pubblico ministero).

In base all’attuale orientamento, pertanto, i fatti o le informazioni oggetto delle conversazioni di WhatsApp – anche quelli irrilevanti ai fini processuali e potenzialmente lesivi della sfera personale dei soggetti a cui si riferiscono – una volta concluse le indagini preliminari, non sarebbero più sottoposti a segreto e potrebbero essere resi pubblici.