Assonime evidenzia le diverse interpretazioni e le criticità della disciplina

Di Maria Francesca ARTUSI

Uno dei temi dibattuti rispetto alla disciplina prevista dal DLgs. 231/2001 riguarda la responsabilità di gruppi o società straniere che operano in Italia e qui commettono degli illeciti senza avere sedi legali sul territorio.
Assonime dedica il Caso n. 2/2018, pubblicato ieri, all’analisi e al commento di una pronuncia del Tribunale di Lucca che ha affermato che le società estere operanti sul territorio italiano hanno l’obbligo di rispettare le norme vigenti in Italia, con la conseguenza che il DLgs. 231/2001 si applica anche agli enti stranieri, a prescindere dalla presenza sul territorio nazionale di una sede secondaria o di uno stabilimento (Trib. Lucca 31 luglio 2017 n. 222).

Il reato contestato era quello dell’omicidio e delle lesioni colpose causate dalla violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, previsto dall’art. 25-septies del DLgs. 231/2001. Il procedimento traeva origine dal tragico deragliamento di un treno merci con la conseguente fuoriscita di gas di petrolio liquefatto, che causò un incendio e l’esplosione di tre palazzine adiacenti alla stazione, provocando la morte di trentatrè persone.
Oltre alla posizione delle società italiane Trenitalia e Ferrovie dello Stato, i giudici hanno esaminato anche il ruolo assunto da due società straniere che, pur non avendo né una sede né uno stabilimento nel nostro Paese, avevano dato in locazione a FS i carri cisterna che trasportavano il gas fuoriuscito e si erano occupate della manutenzione degli stessi.

Va ricordato in proposito che l’art. 4 del DLgs. 231/2001 stabilisce che “nei casi e alle condizioni previsti dagli artt. 789 e 10 c.p., gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto”. Gli articoli del codice penale richiamati da tale norma richiedono che l’ente abbia in Italia la propria sede principale, che per lo stesso fatto non proceda lo Stato del luogo in cui esso è stato commesso e che sussista, ove preveduta dalla legge, la condizione di procedibilità costituita dalla richiesta di procedere contro l’ente da parte del Ministro della Giustizia o della querela.

Viene, così, disciplinata la situazione in cui un ente commette un reato all’estero, ma non esplicitamente quella inversa, rilevante nel caso in esame. Diversa giurisprudenza di merito si è, tuttavia, pronunciata in favore dell’applicabilità in situazioni analoghe della normativa italiana (si pensi al “caso Siemens” o alla più recente contestazione per riciclaggio e frodi finanziarie a Crédit Suisse AG, conclusasi con un patteggiamento ex art. 8 del DLgs. 231/2001). Ragionando diversamente si attribuirebbe all’ente “una sorta di autoesenzione della normativa italiana in contrasto con il principio di territorialità della legge, in particolare con l’art. 3 c.p.” (Trib. Milano 28 ottobre 2004).
Si potrebbe, inoltre, porre un tema di concorrenza sleale rispetto a imprese operanti sul medesimo territorio e sottoposte a discipline differenti.

Argomenti ulteriori a sostegno di tale tesi (criticata, a dire il vero, da parte della dottrina) evidenziano che: la legge non distingue in alcun modo tra enti nazionali e stranieri (art. 1 del DLgs. 231/2001); la disciplina si applica espressamente agli enti con sede principale in Italia anche se il reato è commesso all’estero e perciò, a maggior ragione, va incriminato l’ente che realizzi il reato in Italia, a prescindere dalla nazionalità; è il giudice penale competente in ordine al reato presupposto che conosce dell’illecito amministrativo della persona giuridica, così che la competenza per l’accertamento dell’illecito dell’ente si radica nel luogo di commissione del reato presupposto (art. 36 del DLgs. 231/2001).

Assonime cita anche una tesi “intermedia” che, ammettendo la responsabilità dell’ente straniero, tuttavia ritiene che questo possa andare esente non solo se provi di avere concretamente adottato un’efficiente sistema di prevenzione dei reati ma anche se si accerti che, ove avesse rispettato formalmente il DLgs. 231/2001, ciò non avrebbe comunque potuto impedire la commissione del reato.

Sembrerebbe, dunque, un altro dei temi e delle criticità da portare all’attenzione del legislatore per una riforma della responsabilità degli enti.
Tanto è vero che Assonime conclude il proprio commento evidenziando che “è ormai incerta la finalità della normativa che, nata come un’opportunità per le imprese in termini di esenzione dalla responsabilità per gli illeciti commessi nell’attività di impresa quando sia attuata la compliance al decreto (predisposizione di modello organizzativo adeguato; previsione dell’Organismo di Vigilanza), si è nel tempo rivelata un severo strumento di importanza centrale per promuovere la legalità di impresa, a cui i giudici attingono per condannare, con misure e sanzioni gravi, le imprese che non impediscano i reati commessi nel loro interesse o vantaggio”.