Contestata la nuova aggravante introdotta dal DLgs. 158/2015

Di Maurizio MEOLI

In tema di reati tributari (nella specie, indebita compensazione ex art. 10-quater comma 2 del DLgs. 74/2000), per la violazione tributaria commessa dal cliente è responsabile il consulente fiscale a titolo di concorso quando sia l’ispiratore della frode, a prescindere dal fatto che solo il cliente abbia beneficiato dell’operazione. Se, poi, lo stesso risulti l’ideatore e il regista di un reiterato meccanismo fraudolento, è configurabile anche la nuova aggravante di cui all’art. 13-bis comma 3 del DLgs. 74/2000, che aumenta le pene della metà se il reato è commesso nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.
Ad affermarlo è la Cassazione, nella sentenza n. 1999, depositata ieri.

Si ricorda, innanzitutto, che, ai sensi dell’art. 10-quater comma 2 del DLgs. 74/2000, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/1997, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.
Nel caso di specie, questo reato veniva contestato a taluni soggetti che avevano ideato e commercializzato modelli di evasione fiscale connotati dal fatto di effettuare compensazioni accollandosi il debito tributario di terzi, consentendo l’apparente regolarizzazione della loro posizione fiscale, ma sulla base di crediti fittizi. Ciò conduceva all’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo per equivalente di beni mobili e immobili, corrispondenti al profitto del reato, anche in capo al consulente fiscale di talune delle società attraverso le quali veniva perpetrato il meccanismo fraudolento, nonché domiciliatario di alcune società beneficiarie dello stesso. In capo a quest’ultimo, anzi, si ravvisava anche la ricordata aggravante di cui all’art. 13-bis comma 3 del DLgs. 74/2000 (inserito dall’art. 12 comma 1 del DLgs. 158/2015).

Contro il provvedimento veniva presentato ricorso per Cassazione, nel quale si eccepiva, tra l’altro, la non ravvisabilità della fattispecie di indebita compensazione, la propria posizione meramente colposa e l’assenza, in capo a se stesso, di qualsiasi profitto (al di là del compenso professionale, regolarmente fatturato).

La Suprema Corte rigetta il ricorso. Innanzitutto, si sottolinea la corretta qualificazione giuridica del fatto e si ribadisce il seguente principio di diritto (già affermato da Cass. n. 55794/2017): integra il delitto di indebita compensazione il pagamento di debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta a seguito del c.d. “accollo fiscale” ove realizzato con l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, in quanto l’art. 17 del DLgs. 241/1997 non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti.

Nella specie, peraltro, emergeva il ruolo, ricoperto dal ricorrente, di ideatore e regista delle operazioni illecite. Circostanza che porta, in primo luogo, all’affermazione del seguente ulteriore principio di diritto: in tema di reati tributari, è responsabile a titolo di concorso il consulente fiscale per la violazione tributaria commessa dal cliente, quando il primo sia l’ispiratore della frode, e anche se solo il cliente abbia beneficiato dell’operazione fiscalmente illecita. La condotta dolosa da parte del consulente consiste, infatti, nella mera coscienza e consapevolezza del fatto che si stia ponendo in essere una frode fiscale.

Ma il fatto è anche aggravato ex art. 13-bis comma 3 del DLgs. 74/2000. Ciò in quanto la nozione di “professionista” ivi contemplata non è da limitare ai soli soggetti abilitati alla presentazione delle dichiarazioni (come da taluni ipotizzato), dovendo essere intesa “in senso sostanziale” e, quindi, comprensiva di chiunque, nell’esercizio della propria professione, svolga attività di consulenza fiscale. Si pensi, ad esempio, a dottori commercialisti e avvocati (cfr. la Relazione III/05/2015 dell’Ufficio del Massimario della Cassazione).

Il riferimento alla “elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione”, inoltre, fa pensare a una certa abitualità/ripetitività della condotta incriminata, ovvero a una sua “serialità”, che, seppure non prevista espressamente, è accennata nella Relazione illustrativa del DLgs. 158/2015 (che ha introdotto l’aggravante) ed è certamente presente nel caso di specie.

Quanto al concetto di “modelli di evasione”, poi, la norma nulla dice; tuttavia, poiché questi sono oggetto di una condotta “seriale”, è indubbio che rappresentino forme di evasione particolarmente complesse ed elaborate, nonché replicabili in più casi analoghi (come nel caso in esame).

Da ultimo, la decisione in commento ricorda come, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo per equivalente, in vista della successiva confisca, possa essere disposto, entro i limiti quantitativi del profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito.