Il Tribunale di Roma applica la «solidarietà» dell’art. 2476 comma 7 c.c.

Di Maurizio MEOLI

Il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 8701/2017, analizza la disciplina della responsabilità solidale dei soci di srl rispetto a quella degli amministratori, ex art. 2476 comma 7 c.c.
Presupposti per l’applicazione della disciplina sono l’alterità soggettiva tra soci e amministratori (perché se tutti i soci fossero amministratori si applicherebbe direttamente il primo e terzo comma dell’art. 2476 c.c.) ed il fatto che il soggetto che decida o autorizzi (intenzionalmente) il compimento dell’atto dannoso dell’amministratore sia un socio.

Si tratta, inoltre, di situazione diversa dalla responsabilità dell’amministratore di fatto. Questa figura, infatti, che non necessariamente deve essere concretizzata da un socio della società, è da ravvisare in capo a chi si ingerisca sistematicamente e non occasionalmente nella gestione sociale (con applicazione della disciplina dedicata agli amministratori).
In base ad una interpretazione restrittiva e formalistica, poi, si potrebbero ritenere rilevanti i soli atti autorizzati o decisi dal socio nell’ambito dei poteri attribuitigli dalla legge o dall’atto costitutivo. È ritenuta, peraltro, preferibile, una lettura estensiva, valendo anche l’impulso all’attività gestoria che il socio comunque fornisca a livello decisionale sia pure al di fuori di formali procedimenti di decisione e/o di autorizzazione. Soluzione ritenuta coerente con la ratio normativa, tesa ad evitare l’elusione delle responsabilità in capo ai soggetti che comunque, in qualche modo, influenzino la gestione sociale.

Questa opzione interpretativa, peraltro, non confligge con il principio generale della non responsabilità del socio per le obbligazioni sociali, in quanto si tende solo a garantire la necessaria correlazione tra l’attribuzione di un potere e la responsabilità di chi ne sia investito, facendo sì che il socio risponda, in solido con gli amministratori, del modo in cui ha esercitato il potere attribuitogli.

Rilevano, quindi, oltre al voto in assemblea ed al “supporto” fornito mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto, tutte quelle manifestazioni di volontà espresse dai soci, anche in forme non istituzionali e meramente ufficiose, che siano in grado di concretizzare un’ingerenza o un’influenza effettiva sugli amministratori (cfr. Trib. Roma n. 11177/2016 e Trib. Roma n. 20844/2015).

Particolarmente problematica risulta la lettura dell’avverbio “intenzionalmente”. L’intenzionalità potrebbe essere riferita all’atto decisorio e/o autorizzativo (cfr. Trib. Milano 9 luglio 2009), all’atto compiuto (cfr. Trib. Roma n. 11177/2016 e Trib. Roma n. 20844/2015) o all’evento dannoso stesso ed alle conseguenze “contra ius” che ne derivano (cfr. Trib. Salerno 9 marzo 2010).

La decisione in commento ribadisce la soluzione intermedia già adottata dal Tribunale capitolino, che appare maggiormente aderente alla lettera della norma, secondo la quale – si ricorda – occorre che i soci abbiano “intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”.

In altre parole, l’intenzionalità è costituita dalla piena coscienza di decidere o autorizzare quell’atto potenzialmente dannoso e, in definitiva, dalla riferibilità psicologica dell’atto al socio. Deve, dunque, trattarsi di atti o comportamenti posti in essere dai soci nella fase decisionale, anche fuori dai normali canali di legge o di statuto, e tali da supportare intenzionalmente l’azione illegittima e dannosa poi posta in essere dagli amministratori. È sufficiente, inoltre, che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio, dell’antigiuridicità dell’atto e che, nonostante ciò, costui partecipi alla fase decisionale finalizzata al successivo compimento di esso da parte dell’amministratore. L’antigiuridicità dell’atto esiste non solo quando esso è contrario alla legge o all’atto costitutivo della società, ma anche quando lo stesso, di per sé lecito, è esercitato in modo abusivo; cioè con una finalità non riconducibile allo scopo pratico posto a fondamento del contratto sociale.

I soci, infatti, sono pur sempre tenuti ad osservare i doveri di correttezza e buona fede nei confronti della società, degli altri soci e dei terzi e, quindi, devono evitare di compiere o di concorrere a compiere un atto che, seppure astrattamente lecito, possa di fatto risultare dannoso per gli altri soci (per esempio, di minoranza), e nel contempo essere privo di un vantaggio apprezzabile per la società. È, allora, da considerare antigiuridico anche un atto che, astrattamente lecito, in concreto violi l’obbligo di fedeltà allo scopo sociale e/o il dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.

A fronte di ciò, nella specie, sono chiamati a rispondere ai sensi dell’art. 2476 comma 7 c.c. due fratelli soci al 50% di una srl e beneficiari di illegittime erogazioni da parte dell’amministratrice della società (moglie di uno di essi) prive di giustificazione e di qualsiasi garanzia in ordine ad una eventuale restituzione. Per i giudici romani, infatti, a prescindere da ogni altra considerazione, deve ritenersi che i due soci (e fratelli) avessero certamente deciso o autorizzato, in modo intenzionale, il compimento degli atti in questione.