Quando sussistono artifici e raggiri può essere responsabile anche la società ex DLgs. 231/2001

Di Maria Francesca ARTUSI

L’evasione dell’IVA all’importazione ha natura di reato permanente, la cui consumazione si esaurisce solo quando cessa l’attività diretta a consentire l’illecita circolazione della merce nel territorio dello Stato senza il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto. In determinate ipotesi, tale forma di evasione può integrare anche il delitto di truffa aggravata.
Così precisa la Cassazione nella sentenza n. 56264 depositata ieri, inserendosi in un più ampio dibattito giurisprudenziale sulla corretta qualificazione giuridica di tali condotte.

L’art. 70 del DPR 633/72 disciplina, infatti, l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto nelle operazioni di importazione di merce proveniente da Paesi extracomunitari, proprio attraverso un richiamo alla normativa in tema di violazioni doganali (in quanto il legislatore ha previsto che “si applicano, per quanto concerne le controversie e le sanzioni le disposizioni delle leggi doganali relative ai diritti di confine”). Talune sentenze sostengono, pertanto, che l’IVA all’importazione possa ritenersi diritto di confine, così che l’evasione di questa possa consentire la configurabilità dell’illecito previsto dall’art. 292 del DPR 43/1973 (Cass. n. 26202/2015).

Secondo la pronuncia in commento, l’IVA all’importazione, anche se ritenuta tributo interno sostitutivo di un diritto di confine, è caratterizzata dalla medesima finalità del dazio doganale: cioè, quella di impedire che, mediante l’acquisto all’estero e l’importazione nel territorio dell’Unione europea, possano essere pregiudicati gli interessi economici e fiscali dello Stato e dell’Unione stessa.
Seguendo tale impostazione, il reato di cui agli artt. 1 e 70 del DPR 633/1972, al pari del reato di contrabbando, è configurabile nei confronti di tutti coloro che, venuti successivamente in possesso della merce che non ha assolto il tributo, cooperino nel protrarne l’illegittima circolazione anche con la semplice detenzione, senza che sia possibile distinguere tra gli importatori abusivi iniziali od originari e i detentori nei passaggi successivi.
Nel caso di specie, si trattava della sottrazione dei diritti di confine relativi a un’imbarcazione del valore di 2.100.000 euro (circa 420.000 euro di IVA all’importazione) effettuata tramite l’intermediazione di una società fittizia.

In tale vicenda si profilano altri due aspetti interessanti.
Il primo attiene al calcolo della prescrizione per l’illecito in esame: trattandosi – come si è detto – di reato permanente, la sua consumazione perdura nel tempo perché il tributo grava sulla merce che continua, perciò, a mantenere la sua condizione di illegittimità anche dopo l’introduzione nello Stato. Tale permanenza, tuttavia, cessa in caso di sequestro della merce stessa, facendo questo venire meno la lesione all’interesse protetto.
Dalla cessazione della permanenza inizia, così, a decorrere il periodo per la prescrizione. Né si può prospettare in tale ipotesi la disapplicazione richiesta dalla (prima) sentenza Taricco (Corte di Giustizia, causa C-105/14), che comunque sarebbe superata dalla nuova recente pronuncia dei giudici di Lussemburgo (causa C-42/17).

Altro aspetto significativo riguarda la contestuale contestazione per truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 comma 2 n. 1 c.p. In particolare, l’effettivo proprietario e armatore dell’imbarcazione aveva indotto in errore gli ufficiali della capitaneria di porto, il Ministero dei Trasporti, l’INPS e l’IPSEMA, attraverso artifici e raggiri costituiti dal rappresentare falsamente al momento dell’iscrizione sul Registro internazionale la destinazione commerciale del natante, così da ottenere un ingiusto vantaggio patrimoniale connesso alla facoltà di non versare le somme dovute.

Essendo tale reato richiamato dall’art. 24 del DLgs. 231/2001, ne è derivata anche l’imputazione diretta della società coinvolta nel meccanismo fraudolento. Sulla sussistenza di tale responsabilità venivano sollevate alcune criticità dalla srl “imputata” sia riguardo alla relazione intercorrente tra la persona fisica (a cui è contestato l’originario reato) e la persona giuridica, sia in ordine a un possibile divieto di ne bis in idem nella duplicazione delle sanzioni (concernenti le evasioni contributive nei confronti di INPS e INAIL da sommarsi a quelle relative alla truffa di cui al DLgs. 231/2001), sia, infine, con riferimento al calcolo del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 22 del DLgs. 231/2001.

Tutti questi motivi vengono, però, disattesi dalla Corte di Cassazione, se non riguardo al trattamento sanzionatorio da rideterminare alla luce “delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia delle sanzioni” (art. 11 del DLgs. 231/2001). In particolare, la sentenza in commento esclude l’applicabilità del “ne bis in idem” agli adempimenti previdenziali e assistenziali. Allo stesso tempo, viene esclusa ogni illegittimità costituzionale della disciplina della prescrizione prevista specificamente per le persone giuridiche, attesa la “diversa natura che determina la responsabilità dell’ente” (cfr. Cass. n. 28229/2016).