Occorre anche considerare importanza e rilevanza dell’attività gestoria e dell’opera svolte
Il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 8960/2017, si sofferma sulle deliberazioni assembleari di determinazione dei compensi degli amministratori viziate da abuso di potere o da conflitto di interessi.
Perché possa dirsi integrato un abuso di potere è necessario allegare e dimostrare che la delibera adottata sia la conseguenza di un esercizio “fraudolento” ovvero “ingiustificato” del diritto di voto; l’abuso non può consistere nella mera valutazione discrezionale dei propri interessi ad opera dei soci, ma deve concretarsi nella intenzionalità specificatamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante.
E, quindi, l’abuso di potere è causa di annullamento della deliberazione quando questa: non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società (deve pertanto trattarsi di una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale); sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza, diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli, poiché rivolta al conseguimento di interessi extrasociali.
Occorre, inoltre, considerare che: tali requisiti non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa (cfr. Cass. n. 6361/2003); grava sul socio di minoranza l’onere di provare che quello di maggioranza ha abusato del proprio diritto (cfr. Cass. n. 6361/2003); la presenza del fine fraudolento costituisce non solo un sintomo del vizio della decisione impugnata, ma anche il limite alla tutela della minoranza.
Con riguardo alle deliberazioni assunte con la partecipazione determinante di soci che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società, poi, dalla lettera dell’art. 2479-ter comma 2 c.c., in tema di srl, così come da quella dell’art. 2373 comma 1 c.c., in tema di spa, emerge come il conflitto di interessi non sia, di per sé, sufficiente a inficiare la votazione; perché la delibera sia invalidata occorre anche che il voto del soggetto in capo al quale si configura una situazione di conflitto di interessi sia determinante per il raggiungimento della maggioranza necessaria e che la medesima deliberazione possa recare danno (quindi anche solo in via potenziale) alla società.
Per l’annullamento della delibera, peraltro, è irrilevante che la medesima consenta al socio il conseguimento di un suo personale interesse, se, nel contempo, non risulti pregiudicato l’interesse sociale (cfr. Cass. n. 15950/2007). In altri termini, il vizio rilevante ai fini dell’annullamento, ex artt. 2373 comma 1 o 2479-ter comma 2 c.c., di una deliberazione assembleare ricorre solo nel caso in cui la deliberazione medesima sia diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società. A rilevare, poi, è solo il conflitto tra l’interesse della società e quello perseguito dal socio il cui voto sia stato determinante ai fini dell’adozione della delibera e non, invece, il conflitto di interessi tra i vari soci.
A fronte di tali premesse, il Tribunale di Roma ritiene che la determinazione del compenso spettante al socio amministratore e prestatore d’opera, ancorché assunta con il voto determinante dello stesso, possa ritenersi viziata per conflitto di interessi solo in caso di manifesta sproporzione e irragionevolezza della misura del compenso, in rapporto alla dimensione economica e finanziaria della società, al fatturato annuo e al volume d’affari della stessa e, quindi, alla natura e al rilievo dell’impegno richiesto al socio prestatore d’opera e investito di funzioni gestorie (Cass. n. 28748/2008).
Analoghe indicazioni, comunque, sono state fornite anche in caso di delibera determinativa di compensi agli amministratori da valutare sotto il diverso profilo dell’eventuale vizio di eccesso di potere, ritenendosi anche in tale contesto essenziale l’accertamento della sproporzione e dell’irragionevolezza del compenso (Cass. n. 15942/2007). In tale ottica, quindi, il socio di minoranza dovrebbe provare l’intento fraudolento dei soci di maggioranza, dimostrando, in particolare, che l’attività degli amministratori è, per qualità, quantità e importanza, inidonea a giustificare il compenso loro riconosciuto.
Ciò avendo riguardo a natura e ampiezza dei compiti affidati, al compenso corrente sul mercato per analoghe prestazioni in relazione a società di pari dimensioni, nonché, in funzione complementare, alla situazione patrimoniale ed economica della società. E, quindi, al giudice è affidata una decisione diretta non già a valutare la convenienza o l’opportunità della delibera per l’interesse della società, ma, sulla base di un giudizio di carattere relazionale – teso a verificare la pertinenza, la proporzionalità e la congruenza della scelta – un eventuale motivo di illegittimità desumibile dalla irragionevolezza della misura del compenso. Rispetto a ciò, non è possibile limitarsi a dedurre una contrazione dei ricavi della società; soprattutto nel caso di specie, nel quale il compenso, essendo destinato a un amministratore/prestatore d’opera, va primariamente rapportato a importanza e rilevanza delle attività svolte.