Note di variazione IVA nel fallimento da interpretare
La Corte di Giustizia Ue 23 novembre 2017, causa C-246/16, ha affermato che l’art. 11, parte C, paragrafo 1, comma 2 della Direttiva 77/388/2000 deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro – l’Italia, con l’art. 26, comma 2 del DPR 633/72 – “non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’IVA all’infruttuosità della procedura concorsuale, qualora quest’ultima possa durare più di dieci anni”. Tale principio potrebbe indurre i contribuenti, creditori di un fallimento, a emettere immediatamente la nota di variazione IVA senza attendere l’accertamento giudiziale dell’infruttuositàdella procedura concorsuale, richiesto, invece, dalla norma interna, ora reputata non conforme ai principi comunitari dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dalla prassi (C.M. n. 77/2000).
In realtà, al di là delle ripercussioni che tale comportamento potrebbe determinare sulle casse erariali, nonché della necessità di uno specifico intervento normativo – in linea con quanto disposto dall’art. 1, comma 126 della L. 208/2015, poi superato, nella parte che qui rileva, dall’art. 1, comma 567 della L. 232/2016 – o di una modifica della posizione dell’Agenzia delle Entrate, si impongono alcune riflessioni.
L’orizzonte temporale ultradecennale indicato dalla Corte di Giustizia Ue, riferito a fatti risalenti a un’epoca (anno 2004) in cui trovava applicazione la previgente disciplina fallimentare, deve essere, ora, ponderato alla luce delle successive modifiche normative apportate al RD 267/42, in particolar modo dall’art. 6 del DL 83/2015, applicabile ai fallimenti dichiarati successivamente al 27 giugno 2015. Questa disposizione ha, infatti, stabilito che:
– il curatore, nel programma di liquidazione, deve obbligatoriamente indicare il termineentro il quale sarà completato il realizzo dell’attivo, che non può eccedere i due anni dal deposito della sentenza di fallimento (art. 104-ter, comma 2, lett. f) e 3 L. fall.). Qualora il curatore, limitatamente a determinati cespiti dell’attivo, ritenga necessario un tempo maggiore, è tenuto a motivare specificamente in ordine alle ragioni che giustificano tale termine più ampio;
– il mancato rispetto dei termini previsti dal programma di liquidazione, senza giustificato motivo, costituisce una giusta causa di revoca del curatore (art. 104-ter, comma 10 L. fall.).
La sostenibilità di tempi così celeri di chiusura del fallimento, rispetto a quelli considerati dalla Corte di Giustizia Ue, è garantita dall’art. 118, comma 2 L. fall. – così come modificato dall’art. 7 del DL 83/2015 – secondo cui la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione dell’attivo non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell’art. 43 del RD 267/42.
Alla luce di quanto sopra riportato, si evince, pertanto, come il termine di presunta attesa del creditore del fallimento, per emettere la nota di variazione IVA a norma del vigente art. 26 del DPR 633/72, potrebbe essere di pochi anni, ovvero di un tempo decisamente inferiore a quello considerato dalla giurisprudenza comunitaria.
Sul punto, si potrebbe anche invocare il principio delineato dalla previgente formulazione – introdotta dal citato art. 1, comma 126 della L. 208/2015 – dell’art. 26 del DPR 633/72, in particolare dei commi 4, lett. a), e 11 (poi abrogati dall’art. 1, comma 567 della L. 232/2016), secondo cui il diritto all’emissione della nota di variazione si sarebbe potuto applicare in caso di mancato pagamento, anche soltanto parziale, a partire dalla data in cui il cessionario o committente fosse stato assoggettato a una procedura concorsuale.
In altri termini, qualora quest’ultima fosse stata aperta successivamente al 31 dicembre 2016, il creditore avrebbe potuto emettere la nota di variazione IVA già a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento (o del decreto di ammissione del concordato preventivo).
La problematica della tempistica deve essere, tuttavia, coordinata con quella del quantum del documento di rettifica, che la Corte di Giustizia Ue riconduce al concetto di “probabilità ragionevole che il debito non sia saldato”, la cui prova deve essere fornita secondo le modalità da individuarsi a cura del legislatore nazionale, che potrebbe, pertanto, indurre il contribuente a seguire il medesimo comportamento adottato con riferimento alle svalutazioni contabili – fiscalmente deducibili dal reddito d’impresa, come “perdite su crediti”, ai sensi dell’art. 101, comma 5 del TUIR – fondato sulla rilevanza dei documenti redatti oppure omologati da un organo della procedura concorsuale (CM n. 26/2013, § 6).
In altri termini, risulterebbero rilevanti, ai fini dell’individuazione della somma che il creditore ritiene ragionevolmente di non incassare più (e del momento in cui può essere esercitato il diritto all’emissione della nota di variazione IVA), i tempi di formazionedello stato passivo esecutivo – certamente superiori ad un anno, ai sensi degli artt. 16, comma 1, n. 4) e 101, comma 1 L. fall. – e di approvazione del programma di liquidazione, ovvero del primo rapporto riepilogativo semestrale (art. 33, comma 5 L. fall.) successivo a tali adempimenti, dal quale sono desumibili le informazioni sulla probabilità di soddisfazione del credito.