Assonime dedica un Caso allo sfruttamento del lavoro nelle catene della moda

Di Maria Francesca ARTUSI

Il tema della tutela dei diritti umani e dei diritti sul lavoro nel settore tessile e della moda, ma anche in altri settori produttivi, è un tema sensibile da tempo al centro del dibattito delle istituzioni internazionali ed europee e di attualità anche nel nostro Paese.

Con tale osservazione il Caso Assonime n. 5 del 2024, pubblicato ieri, si sofferma su tre pronunce del Tribunale di Milano (del 15 gennaio, del 3 aprile e del 6 giugno 2024) con cui è stata disposta la misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dal Codice Antimafia (DLgs. 159/2011) consistente nella nomina di un soggetto designato dal Tribunale cui viene affidata la gestione temporanea dell’impresa, anche limitatamente a specifici settori. Tale misura è stata ordinata nei confronti di tre società di progettazione e produzione di abbigliamento, borse, pelletteria e accessori, appartenenti a importanti gruppi multinazionali operanti nel settore della moda per avere colposamente agevolato la commissione del reato di illecita intermediazione e sfruttamento del lavoro, previsto dall’art. 603-bis c.p., posto in essere da alcuni opifici cinesi cui era stata subappaltata parte della produzione.

Il Caso in esame precisa che tali decisioni sono interessanti, da un lato, per lo spaccato produttivo e di violazione di diritti che mettono in luce, caratterizzato da forme di sfruttamento del lavoro che hanno luogo nel nostro Paese. D’altra parte, l’interesse deriva anche per la misura dell’amministrazione giudiziaria di azienda che, come la disciplina prevista dal DLgs. 231/2001, guarda alle carenze organizzative dell’impresa per sostanziarne la colpa di non aver impedito o di aver agevolato la commissione di un crimine nell’ambito delle catene di fornitura. Viene in proposito evidenziato che la questione giuridica sottesa alle differenze fra tali discipline, i loro presupposti, l’accertamento e le conseguenze è complessa e va esaminata per chiarire se l’amministrazione giudiziaria abbia effettivamente natura preventivo-cautelare o natura di fatto sanzionatoria, che colpisce la reputazione dell’impresa, per responsabilità da colpa di organizzazione dell’ente.

Lo schema di condotta che viene contestato nelle citate pronunce giudiziali può essere così sintetizzato: le case di moda affidano, mediante contratti di appalto, l’intera produzione a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi; l’azienda appaltatrice dispone solo nominalmente di capacità produttiva, potendo provvedere alla creazione del prototipo e alla campionatura del materiale, ma non alla produzione dell’intera linea; le commesse vengono, pertanto, subappaltate a opifici cinesi, che riescono ad abbattere i costi e a garantire un elevato livello di produzione grazie allo sfruttamento di manodopera irregolare e clandestina in stato di bisogno e a gravi violazioni delle regole in tema di salute e sicurezza.

Si noti che il reato previsto dall’art. 603-bis c.p. è altresì inserito nell’elenco del catalogo dei reati che possono dar luogo alla responsabilità ex DLgs. 231/2001 dell’impresa all’interno della quale il reato è stato commesso. Ma il problema – come spesso accade anche per altre tipologie di reati – si pone in modo particolare quando l’illecito non è commesso direttamente dalla società titolare dell’impresa, ma da un’entità distinta, inserita nella sua filiera di appalti e subappalti, spesso estesa a livello globale.