Il giudizio penale è autonomo, ma non si può prescindere dalle specifiche regole della legislazione fiscale per determinare e quantificare l’imponibile

Di Maria Francesca ARTUSI

Nei procedimenti per un reato tributario, il giudice penale non è vincolato ai risultati degli accertamenti sui redditi effettuati ai sensi degli artt. 383941 del DPR 600/73, né ai criteri di giudizio previsti dalla legislazione fiscale e civilistica, essendo suo preciso dovere ricostruire in modo autonomo e con le regole proprie del processo penale i fatti che danno luogo a responsabilità penale. Ciò non significa che in sede penale si possa prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per determinare e quantificare l’imponibile dell’imposta sui redditi e quella sul valore aggiunto (e dunque l’imposta evasa): cambia la regola di giudizio, non la regola da applicare. La diversa regola di giudizio può condizionare l’ambito di applicabilità della norma tributaria, ma impone comunque al giudice penale di tenerne conto.

Per tale ragione, anche ai fini della ricostruzione dell’imposta evasa ai sensi dell’art. 1 lett. f) del DLgs. 74/2000, è necessario attingere alle regole stabilite dalla normativa fiscale, ma con le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale, per cui i costi concorrono sì alla determinazione dell’imponibile purché ne sussista la certezza o anche solo il ragionevole dubbio circa la loro esistenza.

L’art. 1 citato stabilisce, infatti, che per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione. Nel caso all’esame della sentenza n. 5577 depositata ieri in Cassazione, in assenza di scritture contabili relative proprio agli anni di imposta in contestazione, tale differenza è stata ottenuta nel seguente modo: calcolando i ricavi in base agli scontrini emessi (e dunque il totale degli incassi) e detraendo i costi presumibilmente sostenuti secondo l’incidenza percentuale che essi avevano certamente avuto negli anni precedenti, nei quali erano stati documentati.

Secondo la Cassazione, tuttavia, poiché l’ammontare della “imposta evasa” è elemento costitutivo del reato di omessa dichiarazione (art. 5 del DLgs. 74/2000) – fattispecie contestata nel caso di specie – della relativa prova deve farsi carico il pubblico ministero il quale, dovendo svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, deve individuare i costi sostenuti per il conseguimento dei ricavi non dichiarati che siano stati comunque accertati, senza attendere che a ciò provveda la persona sottoposta alle indagini.
È necessario, comunque, che di tali costi non contabilizzati sussista la prova, diretta o indiziaria. Ove a fronte dell’esistenza certa di ricavi non dichiarati la persona sottoposta alle indagini lamenti la mancata deduzione dei costi a essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190 c.p.p.) o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta.

Non è perciò legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza (cfr., sul punto, Cass. n. 37131/2013).

Il criterio di giudizio del “al di là di ogni ragionevole dubbio” imposto dall’art. 533 comma 1 c.p.p. investe tutti gli elementi costitutivi del reato, sicché ove sussista un dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità (e dunque l’ammontare dell’imposta evasa), il giudice deve affermare l’insussistenza del fatto, purché si tratti di un dubbio “ragionevole”, fondato cioè su fatti verificabili, non su mere congetture, ipotesi, astrazioni e automatismi.

Non costituisce, dunque, “violazione di legge” quantificare l’imposta evasa contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti senza detrarre i costi che non siano stati contabilizzati in ordine alla cui esistenza effettiva (o anche solo al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza) manchino specifiche deduzioni o allegazioni. Nessun criterio di giudizio legittima la deduzione di costi non contabilizzati in base a presunzioni sganciate da qualsiasi dato fattuale che renderebbe irragionevole il dubbio sulla loro esistenza e arbitraria persino la loro quantificazione.

La sentenza in esame torna sul tema del “ragionevole dubbio” anche in relazione alla qualifica di amministratore di fatto. Ai fini della attribuzione a un soggetto di tale ruolo non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico oppure occasionale (Cass. n. 22108/2015). Nell’omessa dichiarazione qui contestata, il fatto che l’imputato tenesse la contabilità in un contesto familiare-societario ristretto rappresenta un “dato neutro” che non è di per sé sufficiente a integrare il concorso fattivo nella gestione della società se non si dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio (appunto), che tenendo la contabilità egli avesse agevolato/favorito/ istigato la commissione del reato omissivo per il quale si procede e comunque concorso nella gestione societaria.