Non è possibile condannarlo per non aver provveduto agli omessi versamenti

Di Maurizio MEOLI

Con la sentenza n. 47376/2022, la Cassazione ha precisato che, quando alcune operazioni dolose causative del fallimento, ex art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42, sono già state poste in essere al momento della nomina di un determinato soggetto alla carica di amministratore, ai fini della sua responsabilità per la fattispecie in questione è necessario verificare che un aggravamento del dissesto vi sia stato e che abbia contribuito a causare il fallimento.

Ai sensi dell’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42, la pena comminata per la bancarotta fraudolenta (da tre a dieci anni di reclusione) si applica anche quando gli amministratori abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.
Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, le ricordate operazioni dolose potrebbero anche consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali o previdenziali quando costituiscono il frutto di una consapevole scelta gestionale da cui consegua il prevedibile aumento dell’esposizione debitoria della società nei confronti dell’Erario o degli enti previdenziali (cfr., tra le altre, Cass. nn. 22765/2021 e 24752/2018).

La fattispecie, infatti, presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, ma da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati verso l’esito perseguito e si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale dove, invece, le disposizioni dei beni societari (qualificabili in termini di distrazione, dissipazione, occultamento o distruzione) sono caratterizzate, secondo una valutazione ex ante, da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società. Peraltro, trattandosi di reato a forma libera, il delitto in questione può essere integrato da condotte sia attive che omissive, costituenti inosservanza dei doveri imposti ai soggetti indicati dalla legge, rispetto alle quali il fallimento si pone come evento della fattispecie.

Ai fini dell’integrazione, inoltre, rileva non solo il caso in cui la situazione di dissesto trovi la sua causa nelle condotte o nelle operazioni dolose, ma anche quando esse abbiano aggravato la situazione di dissesto che costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. n. 40998/2014, secondo cui il delitto sussiste anche quando le operazioni dolose dalle quali deriva il fallimento della società non comportino una diminuzione algebrica dell’attivo patrimoniale, ma determinino comunque un depauperamento del patrimonio non giustificabile in termini di interesse per l’impresa).

A fronte di tali indicazioni generali, la decisione in commento sottolinea come debba essere adeguatamente approfondito il rilievo avanzato dall’amministratore del caso di specie, perché condannato in sede di merito nonostante fosse stato nominato quando gli omessi versamenti rilevanti ai fini dell’integrazione della fattispecie erano già stati posti in essere, con impossibilità di porvi rimedio per mancanza di fondi.
Non è, infatti, possibile condannare, di per sé, tale soggetto, ma occorre chiarire quale sia il debito maturato nel periodo in cui il nuovo amministratore ha operato, distinguendolo dal complessivo debito preesistente, perché già maturato. Se è vero, infatti, che anche il solo aggravamento del dissesto rileva penalmente, occorre, però, altresì, verificarne l’esistenza e la portata causale rispetto al fallimento.

Inoltre, dall’eventuale entità dell’aggravamento potrebbero trarsi elementi anche in ordine al dolo che deve supportare la condotta contestata e, quindi, nel caso, escludere la possibilità, invocata dall’amministratore, di riqualificare la condotta in bancarotta semplice da tardiva richiesta di fallimento.
È, infatti, da considerare che il dissesto è, nella fattispecie astratta, solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria avente a oggetto l’operazione, mentre non è richiesta l’intenzionalità diretta a produrlo. È proprio questo l’elemento che differenzia la fattispecie in considerazione dall’altra, sempre contemplata dall’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42.

Se, dal punto di vista oggettivo, i due reati non presentano sostanziali differenze, dal punto di vista soggettivo vanno tenuti distinti, perché, nell’ipotesi di causazione dolosa del fallimento, questo è voluto specificamente, mentre, nel fallimento conseguente a operazioni dolose, esso è solo l’effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio della stessa.
La prima fattispecie è, dunque, a dolo specifico, mentre la seconda è a dolo generico. Circostanza che rende possibile ritenere, nel contempo, insussistente il dolo (specifico) diretto alla causazione del fallimento ed esistente il dolo (generico) in relazione a singole operazioni che hanno determinato il fallimento.