Nei suoi confronti non è possibile ricorrere alla posizione di garanzia di cui all’art. 40 comma 2 c.p.

Di MAURIZIO MEOLI

Ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’amministratore di diritto, mero prestanome, per i reati di riciclaggio o autoriciclaggio posti in essere dall’amministratore di fatto, non può farsi leva sulla posizione di garanzia di cui all’art. 40 comma 2 c.p., ma solo sulle previsioni che reggono il concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p.
Potrebbe essere questa la sintesi della sentenza n. 43969/2022 della Cassazione, relativa a un caso in cui l’amministratore di diritto (prestanome) di una società veniva indagato, e posto agli arresti domiciliari, per i reati tributari, di bancarotta, di riciclaggio e autoriciclaggio perpetrati da coloro che gestivano di fatto la stessa (cfr. anche Cass. n. 43968/2022 e la più recente Cassazione n. 47528, depositata ieri).

Si ricorda che l’art. 40 c.p. – dopo aver affermato che nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione – precisa come il non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivalga a cagionarlo.
È questa la disposizione sulla quale si fondano, in genere, le contestazioni di reati economico-finanziari in capo ad amministratori di diritto, meri prestanome. Ciò in quanto più difficile sarebbe dimostrarne la colpevolezza facendo leva sulla disciplina del concorso di persone di cui all’art. 110 c.p., occorrendo, a tal fine, provare il contributo concorsuale (materiale o morale), nonché il necessario coinvolgimento psicologico (coscienza e volontà del fatto criminoso in cui si concorre e coscienza e volontà di concorrere con altri nella realizzazione di quel fatto).

Nel caso di specie, i giudici di legittimità ricordano, in primo luogo, come la prova del dolo specifico dei reati tributari, di cui al DLgs. 74/2000, in capo all’amministratore di diritto di una società, che funge da mero prestanome, possa essere desunta dal complesso dei rapporti tra questi e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono rilevanza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità. Del reato di omessa dichiarazione, ad esempio, si è osservato come l’amministratore di fatto risponda quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile per omesso impedimento dell’evento, a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (cfr. Cass. n. 8632/2021). Da questo punto di vista, in particolare, è stato attribuito rilievo anche al dolo eventuale.

Tali considerazioni sono riferite a ipotesi di reati tributari, per i quali incombe sull’amministratore di diritto l’onere della regolare tenuta delle scritture e del pagamento delle imposte. Peraltro, anche a fronte di condotte di riciclaggio e autoriciclaggio compiute dai gestori di fatto della società, la responsabilità non può derivare esclusivamente dall’assunzione della carica.
Tali condotte, tuttavia, costituiscono un quid pluris rispetto alle semplici attività di evasione fiscale, richiedendo la prova che attraverso le attività di quella specifica società siano state effettuate operazioni tese a sostituire il profitto illecito dei reati fiscali.

Ne deriva, pertanto, che la responsabilità a titolo di concorso, sotto il profilo soggettivo, può essere affermata soltanto in presenza di indici rivelatori del concorso morale e, quindi, della consapevolezza da parte dell’amministratore di diritto che la società sia utilizzata anche per il compimento di azioni di quel particolare tipo, non bastando una generica consapevolezza della destinazione della struttura ad attività di evasione fiscale.

Infatti, l’orientamento giurisprudenziale che, per i reati tributari o di bancarotta posti in essere dagli amministratori di fatto, ammette la responsabilità dell’amministratore di diritto a titolo di dolo eventuale, si basa sui molteplici riferimenti normativi che stabiliscono precisi precetti in tali materie, facendo venire in rilievo la responsabilità da omesso impedimento di tali eventi delittuosi ex art. 40 comma 2 c.p. Questo argomentare non è però estendibile a tutti i reati consumati all’interno delle compagini sociali o mediante le stesse.

Se è vero, infatti, che l’amministratore di diritto è obbligato alla regolare tenuta delle scritture contabili, così come al regolare pagamento delle imposte e alla regolare destinazione dei beni aziendali alle attività sociali, è altrettanto vero che non sussiste, né potrebbe altrimenti prevedersi, se non in violazione del principio di tassatività della norma penale, una disposizione che imponga all’amministratore di vigilare sulla regolare osservanza di qualsiasi norma penale da parte dei soggetti comunque coinvolti nelle attività sociali.

E allora, per le attività di riciclaggio o autoriciclaggio, non è possibile l’estensione dei principi dettati dall’art. 40 comma 2 c.p. all’amministratore di diritto prestanome proprio per l’assenza di un obbligo giuridico ricavabile da uno specifico riferimento normativo in tal senso. Di conseguenza, la sua responsabilità per simili condotte, poste in essere dai gestori di fatto, può essere affermata solo in applicazione dei criteri generali del concorso di persone ex art. 110 c.p.