La loro inesistenza costituisce di per sé un indice rivelatore della volontà di bilanciare i propri debiti con una posta creditoria artificiosamente creata

Di MARIA FRANCESCA ARTUSI

Secondo la giurisprudenza penale, l’inesistenza del credito costituisce di per sé, salvo prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di bilanciare i propri debiti verso l’Erario con una posta creditoria artificiosamente creata, ingannando il fisco. Diverso è il caso in cui vengano dedotti crediti non spettanti, sebbene certi nella loro esistenza e ammontare: qui occorre provare la consapevolezza da parte del contribuente che il credito non sia utilizzabile in sede compensativa (cfr. Cass. n. 5934/2018).

La sentenza n. 43613 depositata ieri dalla Cassazione torna così sul tema del dolo del reato di indebita compensazione (art. 10-quater del DLgs. 74/2000), confermando il sequestro del profitto nei confronti del legale rappresentante di una srl che aveva compensato, attraverso il meccanismo dell’accollo fiscale, i propri debiti fiscali inerenti l’imposta sul valore aggiunto con crediti di altre società, poi risultati inesistenti.

Tale società aveva stipulato dei contratti di accollo in spregio alla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 140 del 15 novembre 2017, la quale ha escluso la possibilità di operare la compensazione tra debiti e crediti appartenenti a soggetti giuridici diversi, essendo l’istituto della compensazione limitato alle ipotesi di crediti dello stesso periodo, operanti nei confronti dei medesimi soggetti e risultanti delle dichiarazioni e della denunce periodiche presentate.

In base a tali principi, l’Agenzia ha ritenuto di considerare validi e non sanzionabili i pagamenti dei debiti accollati, effettuati tramite compensazione, prima della pubblicazione di tale risoluzione, qualora siano stati spesi crediti esistenti ed utilizzabili. Viceversa, per i pagamenti successivi alla pubblicazione della risoluzione, ancorché riferiti a contratti di accollo antecedentemente stipulati – nel presupposto che la compensazione operata non estingue l’obbligazione tributaria e non libera il contribuente originario – l’Agenzia ha distinto la posizione dell’accollato da quella dell’accollante: per il primo, l’omesso pagamento comporta il recupero dell’imposta evasa e l’applicazione delle sanzioni e degli interessi, mentre per il secondo l’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 13 commi 4 e 5 del DLgs. n. 471/1997.

La sentenza qui in esame rammenta che, in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, riscossione e rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche e inderogabili norme di legge. Diversamente da quanto ritenuto dal soggetto ricorrente nel procedimento in esame, la Cassazione non ritiene che tale principio sia da considerarsi superato per effetto dell’art. 8 comma 1 della L. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato, a decorrere dall’anno di imposta 2002 (cfr. Cass. n. 17001/2013 e Cass. n. 10207/2016).

Del resto, come osservato nell’indicata risoluzione, nel momento in cui l’accollante paga mediante compensazione con un proprio credito, entra in gioco la compensazione, disciplinata dalla normativa tributaria di riferimento (in primis dall’art. 17 del DLgs. 241/1997), che non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti.

Nel caso di specie, il Tribunale di merito aveva rilevato come due contratti di accollo erano stati formalizzati in epoca di poco precedente all’indicata risoluzione, gli altri poco dopo, ma che, comunque si trattava di compensazioni per crediti poi risultati inesistenti che furono tutte effettuate nel 2018 e, dunque, dopo la citata risoluzione; su queste basi, l’ordinanza impugnata ha argomentato la sussistenza del dolo del reato.

La buona fede del contribuente non viene nemmeno attestata – per i giudici di legittimità – dal fatto che la procedura per l’utilizzo dei crediti ai fini della compensazione è informatizzata in quanto i crediti vengono immessi sulla piattaforma dell’Agenzia delle Entrate, in quanto ciò non vale a conferire agli stessi il crisma della regolarità. Laddove i crediti siano utilizzati dalla accollata ai fini della compensazione attraverso al stipula di accordi di accollo, le parti contraenti si assumono la responsabilità della legittimità degli accordi medesimi rispetto sia alla controparte, sia all’Agenzia delle Entrate; tant’è vero che, a differenza della disciplina civilistica, in ambito tributario l’accollato non è liberato dall’obbligo tributario e l’accollante assume una responsabilità solidale.