Precluso il ricorso al metodo dei «multipli di borsa»

Di MAURIZIO MEOLI

Nella sentenza del 20 giugno 2022 del Tribunale di Torino, i giudici sottolineano come sia possibile la presenza di più valori di concambio parimenti legittimi, perché compresi in un intervallo ragionevole. In tal caso, la scelta del concambio effettivo cessa di essere questione esclusivamente tecnico-valutativa e diventa materia di possibile negoziato tra gli amministratori delle società (si veda “Il rapporto di cambio può valere per il recesso” di oggi).

Pertanto, il valore dell’entità partecipante alla fusione – e, in proporzione, di ciascuna azione – determinato ai fini del concambio di fusione può, in generale, ritenersi un indice affidabile del valore delle azioni, anche ai fini della liquidazione della partecipazione in caso di recesso. Esso potrebbe risultare non attendibile, o comunque inutilizzabile a tali fini, solo se incompatibile con i criteri normativi o statutari previsti per la liquidazione del socio e, maggiormente, se il valore del capitale economico delle società partecipanti alla fusione venga elaborato in prospettiva “sinergica”, valutando la società risultante dalla fusione e non quelle che partecipano alla fusione; valutazione, questa, evidentemente incompatibile con l’art. 2437-ter c.c., il quale richiede di considerare valore e prospettive reddituali esclusivamente della società ante fusione, coerentemente con la scelta di disinvestimento compiuta dal socio di non voler prendere parte all’entità risultante dalla fusione (peraltro, nella specie, anche il valore delle azioni della incorporata era stato determinato dagli amministratori delle società partecipanti in ottica stand alone e non solo ai fini del concambio).

Quanto alla contestazione del mancato utilizzo, come succedaneo del valore di mercato, del metodo dei c.d. multipli di borsa, relativi a banche comparabili con quella in valutazione, si evidenzia come il valore di mercato rilevante agli effetti della determinazione debba concernere la società dalla quale il recesso sia stato esercitato, osservando le transazioni o gli scambi eventualmente avvenuti – fra parti consapevoli e indipendenti – in un arco temporale sufficientemente indicativo ed aventi ad oggetto le azioni medesime. Tale valore di mercato deve, quindi, essere riferito alle azioni di “quella” società, non di altre, anche perché, diversamente, non avrebbe senso il riferimento normativo a un valore “eventuale”; puntualizzazione che lascia intendere come transazioni su quelle azioni possano essere avvenute o no. Se, invece, il legislatore avesse voluto intendere qualunque transazione su azioni di società similari o comparabili, tale aggettivo sarebbe stato del tutto superfluo, se non privo di significato, poiché è sempre possibile rinvenire transazioni operate sul mercato suscettibili di venire ricondotte, in via analogica, a una determinata società.

Quanto all’ultima contestazione della banca incorporante di gravi errori nell’applicazione del metodo prescelto, si osserva come non risulti credibile alla luce del fatto che, come evidenziato, da un lato, la valutazione operata ai fini del rapporto di cambio era stata comunque effettuata dagli amministratori delle società partecipanti in ottica stand alone e, dall’altro, la determinazione dell’esperto differiva da quella recepita ai fini della fusione in modo percentualmente contenuto (circa il 10%). Ciò, quindi, non consente contestazioni di dettaglio sull’applicazione del metodo prescelto perché, quand’anche degne di considerazione su un piano tecnico, non in grado di inficiare la determinazione del perito sotto il profilo giuridico della erroneità o iniquità “manifesta”, per cui occorrerebbe un risultato concretamente ben distante, tanto a livello quantitativo quanto a livello qualitativo, da quello reputato corretto.

Infine, le contestazioni dei soci recedenti sono considerate dai giudici torinesi “ingegnose”, ma comunque anch’esse non fondate.
L’art. 2437-ter comma 2 c.c., infatti, prevede un atto imputabile agli amministratori avente specificamente a oggetto la “determinazione” del valore di liquidazione delle azioni ai fini del recesso, e non consente, pertanto, di vincolare la società ad un certo valore di recesso sulla base di un ragionamento presuntivo rispetto a deliberazioni aventi un oggetto differente, quale, nella specie, la delibera del CdA della incorporata di approvazione della fusione per incorporazione in cui si fissava il rapporto di concambio nei termini riferiti.

Ai soci recedenti, in conclusione, viene riconosciuto il diritto a percepire il valore di liquidazione determinato dall’esperto, maggiorato degli interessi legali maturati a decorrere dalla scadenza del termine di 180 giorni dalla comunicazione del recesso e decurtato dei dividendi distribuiti dalla banca incorporante agli stessi recedenti nella pendenza della causa attinente alla sussistenza del diritto di recedere (l’imputazione del pagamento a dividendi, infatti, decade per incompatibilità giuridica tra la riconosciuta legittimità del recesso e la persistenza del diritto al dividendo, mentre trova applicazione il criterio generale sancito dall’art. 1194 c.c. per le obbligazioni pecuniarie, che prescrive di imputare i pagamenti parziali prima agli interessi maturati e quindi al capitale).