Esaminato un caso di annotazione nelle dichiarazioni fiscali presentate negli anni 2011, 2012 e 2013 di fatture alterate negli importi

Di MARIA FRANCESCA ARTUSI

L’annotazione fittizia di una diversa voce dei ricavi, ovverosia l’indicazione di introiti minori rispetto a quelli attestati dalle fatture emesse, integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.

La sentenza n. 42288, depositata ieri dalla Corte di Cassazione, si sofferma sulla distinzione tra le due tipologie di dichiarazione fraudolenta – artt. 2 e 3 del DLgs. 74/2000 – in un procedimento in cui era contestata l’annotazione nelle dichiarazioni fiscali presentate negli anni 2011, 2012 e 2013 di fatture alterate negli importi. In pratica, dalle annotazioni delle fatture attive risultanti dalla contabilità della ditta era emerso che gli importi ivi figuranti riportavano cifre sensibilmente inferiori a quelle indicate nelle corrispondenti fatture rinvenute  presso i clienti che ne erano stati i destinatari (non essendo stati trovati i documenti contabili originariamente emessi).

Per i giudici di legittimità, non vi è nessun elemento né letterale né logico che consenta di escludere la tipicità della condotta prevista dal citato art. 3 allorquando vengano utilizzati quali elementi attivi fittizi fatture artatamente falsificate, secondo la formulazione della norma vigente all’epoca del commesso delitto, e cioè prima delle modifiche operate dal DLgs. 158/2015, di “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento” della finalità di evasione delle imposte perseguita dall’agente.

Tra il il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici sussiste un principio di specialità reciproca: accanto a un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, deve ritenersi che il discrimine tra le due figure criminose non risieda solo nel fatto che il reato ex art. 2 postuli l’uso di fatture o documenti analoghi relativi a operazioni inesistenti, ma altresì che tale uso concerna gli elementi passivi della dichiarazione d’imposta (corrispondenti cioè ai costi sostenuti dal dichiarante). Il reato ex art. 3 postula invece l’impiego “di mezzi fraudolenti”, stando alla previgente formulazione, ovvero di “documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti”, secondo il testo corrente, in ogni caso idonei a realizzare la finalità decettiva nei confronti degli organi accertatori, purché incidenti sugli elementi attivi (corrispondenti, quindi, ai ricavi asseritamente conseguiti dal dichiarante) della dichiarazione d’imposta così da far figurare un ammontare inferiore a quello effettivo, ovvero sugli elementi passivi (corrispondenti, quindi, ai costi sostenuti dal dichiarante).

La falsificazione delle fatture eseguita dopo la loro emissione con relativa annotazione sulle scritture contabili di un importo sensibilmente inferiore a quello effettivo integra dunque un’attività falsificatoria che, incidendo sugli elementi attivi della contabilità poi riportati nelle dichiarazioni di imposta presentate dall’imputato, risulta rilevante ai sensi del citato art. 3.

Altro aspetto affrontato dalla pronuncia in commento riguarda il delitto di occultamento delle scritture contabili.
La clausola restrittiva nell’art. 10 del DLgs. 74/2000 – secondo cui la condotta di occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti, di cui è obbligatoria la conservazione, deve essere tale da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari – è volta, da un lato, a circoscrivere la condotta tipica rapportando la suddetta impossibilità di ricostruzione alla sottrazione da parte del contribuente infedele delle scritture o dei documenti necessari all’accertamento e, dall’altro, a delineare il bene giuridico tutelato, ovverosia la trasparenza fiscale, intesa nella sua più ampia accezione di interesse al corretto esercizio della funzione pubblica di accertamento tributario.

Ciò non si traduce nell’impossibilità in termini assoluti di procedere alla ricostruzione della gestione economica del contribuente per l’anno di imposta interessato, i cui elementi ben possono essere reperiti, attraverso gli strumenti di indagine a disposizione della Guardia di Finanza, anche aliunde (attraverso controlli incrociati presso i soggetti cui si riferiscono le medesime operazioni o presso i pubblici registri o facendo ricorso alla contabilità in nero).

Spetta, dunque, al giudice accertare, in base a una valutazione comparativa della documentazione esistente e di quella mancante, se la condotta fraudolenta del contribuente sia idonea a mettere in pericolo la funzione probatoria che la legge assegna alla documentazione e alle scritture obbligatorie.

Non vi sarà, allora, il reato quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria possa essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato e senza necessità di reperire altrove elementi di prova. La ricostruzione dei redditi e del volume di affari presidiata dalla norma è, infatti, quella effettuabile agevolmente e comunque nell’immediatezza dagli organi inquirenti sulla base della documentazione in possesso del contribuente e non già facendo ricorso a indagini ulteriori o controlli incrociati presso terzi.