L’opzione della persona fisica per il patteggiamento è un presupposto per l’accesso dell’ente a tale rito, ma non condizione indefettibile

Di MARIA FRANCESCA ARTUSI

Si sta facendo strada in giurisprudenza il principio secondo cui la sentenza di applicazione della sanzione pecuniaria su richiesta dell’ente (c.d. patteggiamento), ai sensi dell’art. 63 del DLgs. 231/2001, non comporta la condanna dell’ente medesimo al pagamento delle spese processuali.
Tale principio viene confermato dalla sentenza n. 40563 della Cassazione, depositata ieri, che pone l’accento sui presupposti del patteggiamento nel “sistema 231”, nonché sui rapporti tra persone fisiche e persone giuridiche.

L’art. 63 del DLgs. 231/2001 stabilisce al comma 1 che “l’applicazione all’ente della sanzione su richiesta è ammessa se il giudizio nei confronti dell’imputato è definito ovvero definibile a norma dell’art. 444 c.p.p., nonché in tutti i casi in cui per l’illecito amministrativo è prevista la sola sanzione pecuniaria”.
Il secondo comma della medesima norma aggiunge una disposizione di chiusura, secondo cui “si osservano le disposizioni di cui al titolo II del libro sesto del codice di procedura penale, in quanto applicabili”.

Dalla lettura della prima parte di tale disposizione, la Cassazione rileva, dunque, che l’ente può accedere al “patteggiamento” in tre ipotesi: se anche il processo nei confronti della persona fisica che ha agito per suo conto si concluda in tal modo; se tale processo sia normativamente suscettibile di essere definito secondo quel rito, ma non vi sia accordo tra le parti o, per qualsiasi altra ragione, tale definizione non si realizzi; se, indipendentemente dalle scelte di rito dell’imputato persona fisica e dall’esito del giudizio nei suoi confronti, anche per quel che concerne la misura della pena da lui concordata, l’illecito amministrativo da reato ascritto all’ente medesimo sia punibile con la sola sanzione pecuniaria e non anche, cioè, con una delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 del DLgs. 231/2001.

Se ne deve coerentemente dedurre – secondo i giudici di legittimità – che l’opzione dell’imputato persona fisica per il patteggiamento rappresenti uno dei presupposti per l’accesso dell’ente al medesimo rito alternativo, ma non anche una condizione indefettibile. Di conseguenza, “un pedissequo ripiegamento della disciplina di rito applicabile all’ente su quella prevista per la persona fisica non sarebbe logicamente coerente” (in questi termini si è espressa di recente anche Cass. n. 30610/2022, già commentata su Eutekne.info; si veda “Niente condanna alle spese per l’ente che «patteggia»” del 4 agosto 2022). Una diversa scelta interpretativa non può nemmeno considerarsi imposta dal generale rinvio al codice di rito, contenuto nella seconda parte della norma, che, in quanto delimitato dalla compatibilità delle relative disposizioni, impone di tener conto della ratio delle medesime nonché di evitare irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe.

Invece, una siffatta disparità ingiustificata si verrebbe a creare proprio in caso di applicazione “patteggiata” di una sanzione pecuniaria, dal momento che la persona fisica andrebbe sempre esente dal pagamento delle spese (a norma dell’art. 445 comma 1 c.p.p.), mentre l’ente sarebbe tenuto al relativo pagamento, se non altro quando, a seguito di ragguaglio, tale sanzione superasse i due anni di pena detentiva.

Interessante è il rilievo della pronuncia in esame sulla equiparabilità tra la “pena” pecuniaria per le persone fisiche e la “sanzione” pecuniaria per le persone giuridiche. Si è in presenza, per la Cassazione, di strumenti sanzionatori del tutto simili tra loro, giacché la diversa denominazione è imposta non da differenze ontologiche tra gli stessi, bensì soltanto dalla natura della responsabilità da reato degli enti definita “amministrativa” nel nome ma, nella sostanza, in tutto assimilabile a quella penale.

Nel caso di specie, non può condurre ad un diverso esito la circostanza per cui il tribunale di merito abbia ravvisato i presupposti per l’applicazione nei confronti dell’ente – anche – di una sanzione interdittiva, tuttavia sostituendola con la nomina di un commissario giudiziale, a norma dell’art. 15 del DLgs. 231/2001. Come si evince dal testo della norma, infatti, la nomina di un commissario rappresenta lo strumento specificamente previsto dal legislatore per “la prosecuzione dell’attività dell’ente” e “in luogo dell’applicazione della sanzione” interdittiva, che impedirebbe tale prosecuzione e, comunque, ne limiterebbe significativamente l’àmbito operativo.

Si rileva agevolmente, dunque, come il commissariamento non possa essere annoverato tra le sanzioni amministrative applicabili all’ente (non a caso, infatti, esso non è compreso nel relativo catalogo di cui all’art. 9 del decreto medesimo), bensì rappresenti una misura del tutto diversa da quelle, per natura e funzioni, alternativa rispetto ad esse nonché precipuamente volta ad evitarne alcuni “effetti collaterali” (cfr. Cass. n. 43108/2011).