Secondo la Cassazione il riconoscimento spontaneo di un maggior compenso non è deducibile
La Cassazione con una recente sentenza (Cass. n. 29342/2022) ha escluso l’inerenza del maggior compenso che l’impresa si sia spontaneamente offerta di pagare alla controparte per remunerare prestazioni di consulenza già ricevute ed effettuate in esecuzione di un contratto che prevedeva, per gli stessi servizi, un minor corrispettivo predeterminato.
I giudici hanno considerato irrilevante la circostanza che l’incremento del corrispettivo fosse stato oggetto di proposta da parte dell’impresa e accettato dalla controparte in quanto le prestazioni di consulenza erano comunque dovute ad un minor corrispettivo, originariamente convenuto, per cui l’assunzione dell’obbligo di pagare ulteriori somme per le prestazioni ricevute non sarebbe stata “compatibile, coerente e correlata” all’attività imprenditoriale.
Pur considerando che l’integrazione del corrispettivo non era prevista dal contratto originario e che i consulenti non avrebbero avanzato alcuna pretesa di maggior compenso, sul piano sostanziale è opportuno evidenziare come tale condotta non si traduca necessariamente in una reale evasione d’imposta, dal momento che i maggiori costi della consulenza hanno prodotto maggiori ricavi in capo ai consulenti.
Da tempo però questa attenzione verso gli aspetti formali è un tratto distintivo del nostro sistema fiscale, tanto in difficoltà nel recuperare l’evasione sostanziale, spesso fatta anche di micro evasione, quanto rigoroso verso quella “cartolare”, più semplice da riscontrare e in grado di trasformare, con relativa fatica, costi reali in redditi apparenti.
Si tratta di un approccio culturale di cui sia l’amministrazione che la giurisdizione sono ormai permeati per cui è difficile ipotizzare un cambiamento in tempo brevi. Alle imprese e ai professionisti non resta che moltiplicare l’attenzione sui profili formali e documentali, in modo da poter efficacemente contrastare queste prassi accertative.
Tornando alla sentenza, per quanto possibile desumere, il ragionamento dei giudici sembra poggiare su alcune evidenze:
– il rapporto di consulenza era di fatto esaurito;
– il contratto originario non aveva previsto una revisione di prezzo;
– i consulenti non avevano avanzato alcuna pretesa.
Con riferimento al primo punto, al di là di fenomeni chiaramente patologici, che un’impresa si offra di aumentare il corrispettivo pattuito a fronte del raggiungimento di risultati positivi o al sostenimento di un impegno inaspettatamente gravoso non sembra incoerente con l’attività d’impresa. La semplice constatazione che il committente potrebbe aver ancora bisogno degli stessi consulenti induce a ritenere razionale tale decisione, a differenza di quanto rileva la Cassazione nella sentenza.
Anche il fatto che il contratto originario non prevedesse revisioni di prezzo, in astratto, non pare dirimente, considerati l’oggetto del contratto stesso e le difficoltà oggettive nello stabilire ex ante il perimetro esatto delle attività di una consulenza. Allo stesso modo, non sembra dirimente il fatto che i consulenti non abbiano avanzato pretese, posto che si tratta di decisioni che vengono di solito assunte con un confronto informale e che una richiesta scritta, “fosse pure in sede non contenziosa” come scrive la Cassazione, non è un buon viatico per l’ottenimento di qualsiasi revisione di prezzo che sia contrattualmente non dovuta.
Fatte queste considerazioni, occorre tuttavia prendere atto della sentenza e prestare attenzione a quelle ipotesi in cui si può verificare analoga problematica.
Caso tipico è quello degli studi professionali che spesso remunerano i collaboratori iscritti ad albo e titolari di partita IVA con premi di fine anno, in funzione dell’andamento dell’attività dello studio e dei risultati raggiunti dal singolo collaboratore.
Bisogna aggiungere che in questi casi i corrispettivi così come i criteri di attribuzione del premio sono generalmente pattuiti in forma verbale.
Si tratta di prassi, di gran lunga prevalente nel mondo delle professioni, che oggi presenta rischi non trascurabili, visto che nel reddito di lavoro autonomo il concetto di inerenza è simile a quello del reddito d’impresa (Cass. n. 3198/2015) e che quindi anche in tale ambito può rilevare la ricostruzione della Cassazione.
In primo luogo, è opportuno formalizzare l’accordo in modo che le fatture del collaboratore di studio, se non sono dettagliate in ordine all’attività prestata, rinviino al contratto e non possano essere disconosciute in quanto generiche. Che la fattura generica renda il costo indeducibile è un principio ormai pacifico ed è ribadito anche dalla sentenza n. 29342/2022 in commento.
La semplice indicazione “consulenza prestata nel mese”, espone ad un rischio di disconoscimento del costo che il richiamo al contratto può evitare.
L’esito della controversia in esame suggerisce inoltre di formalizzare anche l’eventuale premio, individuando criteri oggettivi di attribuzione quali, ad esempio, il maggior impegno orario, il valore delle pratiche gestite, i risultati complessivi dello studio.