La Cassazione chiarisce che deve applicarsi l’istituto della «prorogatio»
Il tema dei poteri del liquidatore dimissionario è stato nel tempo oggetto di dibattito e incertezze, anche per l’assenza di specifiche disposizioni normative.
Un primo orientamento, sostenuto da autorevole dottrina, riteneva applicabile l’istituto della prorogatio anche al liquidatore che avesse rassegnato le dimissioni dall’incarico.
Tale impostazione, tuttavia, sembrava non pienamente condivisa dalla giurisprudenza di merito, che aveva affrontato incidentalmente la questione nell’ambito della valutazione sull’ammissibilità della domanda, da parte del liquidatore dimissionario, di nomina di un liquidatore sostitutivo (ex art. 2487 comma 2 c.c.).
Sul punto, si rinvenivano due orientamenti contrastanti:
– quello che riteneva inammissibile tale domanda, non essendo prevista da alcuna norma la sostituzione del liquidatore giudiziale da parte del Tribunale (cfr. Trib. Brescia 28 novembre 2014);
– e quello che la riteneva viceversa ammissibile, sia in considerazione del disposto dell’art. 2450 c.c. ante riforma (che espressamente consentiva la sostituzione del liquidatore da parte del Tribunale, in caso di impossibilità di nomina assembleare), sia per il fatto che la prorogabilità dei poteri del liquidatore non sarebbe prevista da alcuna specifica disposizione normativa e si porrebbe in contrasto con i principi generali in tema di mandato e di incarichi gestori (cfr. Trib. Milano 14 gennaio 2011).
La Cassazione, con l’ordinanza n. 24123/2022, pur pronunciandosi sul diverso tema della legittimazione del liquidatore dimissionario a presentare istanza di fallimento in proprio (ex art. 6 del RD 267/42), ha chiarito che al medesimo si applica l’istituto della prorogatio dei poteri, benché esso sia espressamente previsto solo con riferimento alla carica di amministratore e relativamente alle società di persone (artt. 2274 e 2293 c.c.) e alle spa (art. 2385 c.c.).
Secondo i giudici di legittimità, tale istituto esprime un principio di ordine generale che, in assenza di specifiche disposizioni – normative o statutarie – soccorre al fine di evitare vuoti nella rappresentanza della società, assicurando la contestualità tra cessazione e sostituzione del liquidatore.
Si è, inoltre, ritenuto irrilevante, al fine di escludere l’operatività della proroga dei poteri del liquidatore, la mancata convocazione, da parte sua, dell’assemblea finalizzata alla sua sostituzione, evidenziando come i soci avessero pur sempre la possibilità di ottenere la nomina di un nuovo liquidatore presentando istanza al Tribunale, in applicazione analogica dell’art. 2487 comma 2 c.c., ai sensi del quale, se gli amministratori omettono la convocazione dell’assemblea che deve deliberare sui temi conseguenti allo scioglimento della società (tra cui anche la nomina dei liquidatori), il Tribunale vi provvede su istanza di singoli soci o amministratori, ovvero dei sindaci, e, nel caso in cui l’assemblea non si costituisca o non deliberi, adotta con decreto le relative decisioni.
Si tratta ora di vedere come la giurisprudenza di merito applicherà i principi di diritto sopra esposti e se essi impatteranno – e, nel caso, in che modo – sulla possibilità o meno, per il liquidatore dimissionario, di domandare al Tribunale la sua sostituzione in caso di inerzia dell’assemblea.
L’ordinanza della Cassazione n. 24123/2022 presenta profili di interesse anche con riferimento alle ragioni che consentono di riconoscere al liquidatore la legittimazione a proporre l’istanza di fallimento in proprio.
La Suprema Corte ha sottolineato come tale legittimazione discenda dall’art. 2489 comma 1 c.c., a norma del quale il liquidatore è investito del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società, senza necessità di una delibera della maggioranza dei soci (cfr. Cass. n. 10523/2019).
Essa, poi, si impone in ragione:
– della responsabilità penale in cui i liquidatori possono incorrere per aver aggravato il dissesto, ove si siano astenuti dal richiedere il fallimento (ex art. 217 comma 1 n. 4 del RD 267/42);
– del fatto che l’art. 2484 c.c. non annovera il fallimento tra le cause di scioglimento della società. Di tal che la decisione del liquidatore non incide sulla “vitalità” dell’ente, materia riservata all’assemblea dei soci.
Alla luce di tali principi, l’istanza di fallimento in proprio viene in rilievo non come atto negoziale o atto di straordinaria amministrazione, bensì come una dichiarazione di scienza doverosa, essendo la sua omissione penalmente sanzionata, e imposta al liquidatore per evitare di incorrere in responsabilità per l’eventuale aggravamento del passivo.
A tal riguardo, peraltro, occorre osservare che il nuovo Codice della crisi (DLgs. 14/2019):
– da un lato, consente tutt’ora al debitore di proporre la domanda di liquidazione giudiziale in proprio (ex art. 37 comma 2), richiamando all’art. 323 la responsabilità penale per l’aggravamento del dissesto;
– dall’altro lato, ha modificato l’art. 2484 c.c. aggiungendo, tra le cause di scioglimento della società, l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale e di liquidazione controllata.