È necessario l’accertamento di tutti i requisiti richiesti dal DLgs. 231/2001, che prevede criteri di imputazione oggettiva
Per comminare a una società una sanzione “231” conseguente alla commissione di un reato ambientale, è necessario accertare la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dal DLgs. 231/2001, non potendo collegare la responsabilità dell’ente unicamente a quella delle persone fisiche che hanno agito.
L’art. 5 di tale decreto prevede, infatti, criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento all’“interesse o al vantaggio”, che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Cass. SS.UU. n. 38343/2014, Cass. n. 38363/2018).
In conseguenza di ciò, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato è sufficiente la prova dell’avvenuto conseguimento di un vantaggio da parte dell’ente, anche quando non sia possibile determinare l’effettivo interesse da esso individuabile a priori rispetto alla consumazione dell’illecito, purché il reato non sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi (Cass. n. 15543/2021).
Ai fini dell’accertamento della responsabilità della persona giuridica entra poi in gioco anche il tema dell’autonomia rispetto alla responsabilità penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall’art. 8 del DLgs. 231/2001. Secondo la giurisprudenza, questa deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell’ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, sempre purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto (Cass. n. 38363/2018). Tant’è che, in presenza ad esempio di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso (che, però, non può appunto prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato).
Tale percorso argomentativo è ribadito dalla sentenza n. 34397, depositata ieri dalla Corte di Cassazione, che ha annullato con rinvio la condanna di una società per il deposito illecito di rifiuti (art. 25-undecies del DLgs. 231/2001).
I giudici di merito si erano, infatti, limitati ad accertare i profili di responsabilità delle persone fisiche, assumendo che doveva altresì riconoscersi la piena responsabilità amministrativa “sia a seguito di acquisizione della documentazione che dalle testimonianze escusse in dibattimento”. Va da sé che in tal modo non è individuato alcun percorso argomentativo idoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico.
Viene altresì precisato che in tema di gestione dei rifiuti, per deposito controllato o temporaneo si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle condizioni dettate dall’art. 183 del DLgs. 152/2006. Con la conseguenza che, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come “deposito preliminare” (se il collocamento di rifiuti è prodromico a un’operazione di smaltimento), come “messa in riserva” (se il materiale è in attesa di un’operazione di recupero), come “abbandono” (quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero) o come “discarica abusiva” (nell’ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi).