Con un visto mendace il professionista crea un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’Amministrazione finanziaria

Di Maria Francesca ARTUSI

La giurisprudenza ha già affermato più volte che è possibile prospettare una rilevanza penale nel caso in cui un professionista apponga un visto di conformità “infedele”. Tale responsabilità si somma a quella “amministrativa” prevista dall’art. 39 del DLgs. 241/1997 e può interessare la condotta del soggetto abilitato al rilascio del visto che attesti falsamente la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione.
Su questo tema torna la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30329 depositata ieri.

Nel caso in esame, era stata contestata a una professionista la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati tributari attraverso la creazione di apposite cooperative e per i reati-fine di dichiarazione fraudolenta e indebita compensazione (artt. 2 e 10-quater del DLgs. 74/2000). I giudici di merito avevano ritenuto che il consorzio criminoso fosse nato per costituire e gestire diverse cooperative con conti all’estero che, secondo uno schema ripetuto e collaudato, emettevano fatture relative a operazioni inesistenti con successiva indebita compensazione dei crediti IVA, previa apposizione del visto di conformità da parte di professionisti, utilizzando anche pubblici ufficiali che, dietro compensi in denaro o regalie, informavano gli associati tempestivamente delle attività di indagine o delle eventuali verifiche fiscali.

Un’attenzione particolare viene riservata al visto di conformità, dal momento che il comportamento del professionista aveva ostacolato l’accertamento fiscale con induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria. Quest’ultima aveva presupposto la positiva verifica, da parte della commercialista, della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e all’attestazione della congruità dei ricavi o dei compensi dichiarati rispetto a quelli determinabili in base agli studi di settore.

Una particolarità riguarda il fatto che qui viene – come detto – contestato il reato di dichiarazione fraudolenta per fatture false (art. 2 del DLgs. 74/2000) e non “per altri artifici” (art. 3 del DLgs. 74/2000), come invece era avvenuto nella giurisprudenza precedente.

Nelle motivazioni viene ricordato che il visto di conformità è un controllo attribuito dal legislatore a soggetti estranei all’Amministrazione finanziaria – professionisti abilitati iscritti negli appositi Albi – per la corretta applicazione delle norme tributarie. È disciplinato dal DLgs. 241/1997, che distingue il visto leggero, previsto dall’art. 35, e il visto pesante (o certificazione tributaria), previsto dall’art. 36.
Nel caso che ci occupa si esamina la natura giuridica del primo, apposto dalla ricorrente, e gli obblighi, in termini di responsabilità, che esso determina.
Ai sensi dell’art. 2 del decreto ministeriale 164/1999 l’apposizione del visto di conformità implica che il professionista riscontri la corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto, i versamenti.
I controlli sono finalizzati a evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili, delle imposte e delle ritenute e nel riporto delle eccedenze risultanti dalle precedenti dichiarazioni.

Per tali ragioni, il professionista che rilascia un mendace visto di conformità, leggero o pesante, o un’infedele asseverazione dei dati, ai fini degli studi di settore, risulta esposto anche a sanzioni penali in ragione dell’espressa previsione di cui all’art. 39 del DLgs. 241/1997 e del meccanismo del concorso nel reato di cui all’art. 110 c.p. in quanto crea un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi (Cass. n. 19672/2019).

Nella specie, avendo il professionista il ruolo di commercialista delle cooperative e di intermediario nella presentazione delle dichiarazioni dei redditi, questi doveva essere pienamente consapevole della fittizietà delle operazioni indicate nelle fatture passive dalle quali erano scaturiti i crediti IVA certificati e il suo visto di conformità costituiva lo strumento prodromico necessario per impedire gli accertamenti dell’Amministrazione finanziaria.

Altra annotazione di rilievo attiene al delitto di indebita compensazione per cui la Cassazione ricorda che, secondo la giurisprudenza costante, il reato si consuma al momento della presentazione del modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale (Cass. nn. 34966/2020 e 4958/2019).