La Cassazione assolve amministratori e sindaci che hanno proseguito il ricorso al credito bancario in un periodo di difficoltà

Di Maria Francesca ARTUSI

Nella bancarotta societaria rilevano le cosiddette “operazioni dolose” commesse dagli amministratori laddove abbiano cagionato o contribuito a cagionare il dissesto (art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42).
Sul punto la giurisprudenza è ampia e viene sinteticamente ripercorsa dalla sentenza n. 22973 della Cassazione depositata ieri.

Si è affermato che rientrano in tale nozione quelle condotte, di natura e struttura economica, che non solo siano direttamente poste in violazione o in inadempimento dei doveri degli amministratori ma anche quelle che concretino una lesione dell’integrità patrimoniale della società così da cagionarne, anch’esse, il fallimento.

Le operazioni dolose attengono, dunque, alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati volti all’esito infausto (Cass. n. 17408/2014 e Cass. n. 47621/2014).

Più genericamente, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Cass. n. 45672/2015).

La fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, ma da un fatto di maggiore complessità strutturale e si distingue, così, dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui al combinato disposto degli artt. 223 comma 1 e 216 comma 1 n. 1) del RD 267/42, in cui, invece, le disposizioni di beni societari (qualificabili in termini di distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) sono caratterizzate, secondo una valutazione “ex ante”, da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata (Cass. n. 12945/2020).

Tutto ciò premesso, nel caso affrontato dalla sentenza n. 22973 in commento, le operazioni dolose vengono connesse dalla pubblica accusa al “continuo e massiccio ricorso al credito bancario nonostante l’ingravescente squilibrio finanziario”.

Si noti che, tra l’altro, è ritenuto configurabile il concorso (ovviamente solo formale per l’evidente “specialità” del primo delitto) fra il ricorso al credito punito dall’art. 218 del RD 267/42 (in quanto tale “abusivo”, come, invece, non è nell’odierna fattispecie dal momento che gli istituti bancari eroganti erano a perfetta conoscenza delle difficoltà finanziarie della società) e le “operazioni dolose” (cfr. Cass. n. 46689/2016).

La Cassazione evidenzia qui come sia necessario – ai fini di una condanna – individuare, concretamente ed esaustivamente, quelle specifiche operazioni che, dolosamente poste in essere (e quindi ponendo consapevolmente e volontariamente in pericolo l’integrità patrimoniale della società amministrata), avrebbero cagionato o contribuito a cagionare il fallimento.

Viene pertanto confermata l’assoluzione decisa in sede di appello: qualificare, infatti, come “operazione dolosa” il ricorso al credito da parte di amministratori, direttore generale e sindaci della fallita (ciascuno per le rispettive competenze) significa affermare che, fin dal primo affacciarsi delle difficoltà economiche, costoro avrebbero dovuto cessare dal perseguire l’attività propria (pur in assenza delle condizioni previste dagli art. 2447 e 2484 c.c.) rinunciando a perseverare nell’acquisto, e nel tentativo di rivendere, i terreni da valorizzare urbanisticamente. Una pretesa evidentemente incongrua e che non tiene neppure conto delle possibili evoluzioni del mercato, su cui agli amministratori avrebbero potuto fare affidamento per pervenire al ribaltamento del trend negativo in atto.

Diviene, allora, evidente per i giudici di legittimità come il ricorso al credito bancario (nel periodo preso in considerazione nel procedimento) non possa che essere considerata una legittima scelta imprenditoriale, priva, in allora, di qualsiasi connotato di “dolosità”.