Assolto per l’infedeltà patrimoniale, residuano le richieste delle parti civili

Di Maria Francesca ARTUSI

Nell’ambito del diritto penale societario è prevista la fattispecie di “infedeltà patrimoniale”, che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.

La giurisprudenza ha precisato alcuni presupposti per la sussistenza di tale reato, così come sancito dall’art. 2634 c.c.: la ricorrenza, in capo all’amministratore, di un interesse in conflitto con quello della società; la “deliberazione” di un “atto di disposizione” di beni sociali; un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata; il fine specifico – in capo all’agente – di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio (cfr. Cass. n. 40446/2019).

L’infedeltà patrimoniale deve ritenersi strutturata sull’esistenza di un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile, tra l’agente e la società, a causa del quale il primo, nell’operazione economica che deve essere deliberata, si trova obiettivamente in una posizione antitetica rispetto a quella dell’ente, tale da pregiudicarne gli interessi patrimoniali (Cass. n. 55412/2018).

La Corte di Cassazione ha ripreso tali principi nella sentenza n. 22257, depositata ieri, in un procedimento in cui era stato contestato il delitto in questione all’amministratore di una srl che aveva operato un bonifico di circa 27.000 euro dal conto sociale sul proprio conto corrente personale, essendo in conflitto di interessi dal momento che era imminente la sua revoca dalla carica ed era anche agente della società medesima.
Costui era stato assolto in primo e secondo grado, in quanto non si era accertato l’effettivo conflitto di interesse quale elemento fondante il reato contestato.

I giudici di legittimità non condividono tale decisione in quanto – richiamando le nozioni civilistiche – evidenziano come la legittimità delle delibere adottate non fa venire meno la situazione di conflitto, derivante dalla sovrapposizione nella stessa persona del ruolo di amministratore e di unico agente di commercio mandatario dell’ente.
In altre parole, il soggetto in questione aveva allo stesso tempo un contratto di agenzia con la società e l’incarico di componente del consiglio di amministrazione con il compito preciso di provvedere alla corresponsione dei pagamenti in proprio favore.

Secondo la Cassazione il pagamento a sé stesso delle provvigioni di agenzia integra la condizione prevista dall’art. 1935 c.c. (contratto con sé stesso) e la relativa presunzione di conflitto di interessi non può dirsi superata in quanto, da un lato, non risulta l’autorizzazione preventiva della società né al pagamento della somma effettivamente versata, né alla determinazione autonoma da parte dell’amministratore del suo importo; dall’altro, tale determinazione, trattandosi della fase di adempimento contrattuale, regolata dal principio generale di collaborazione e buona fede alla base del rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1176 c.c.), andava effettuata in contraddittorio tra le parti, con la verifica della puntuale esecuzione della prestazione e della conseguente applicabilità delle specifiche previsioni contrattuali.

Inoltre, non assume rilievo l’eventuale presenza nel contratto di clausole contenenti criteri di liquidazione oggettivi e predeterminati delle provvigioni, come ritenuto dalla corte territoriale, dovendo l’effettiva liquidazione essere comunque confrontata con la verifica congiunta del puntuale adempimento e con le prestazioni concretamente svolte. Verifica, che, nel caso in esame, con riferimento al bonifico disposto dall’amministratore in suo favore, risulta del tutto assente.

Le motivazioni della sentenza in esame si soffermano altresì su alcuni aspetti civilistici del contratto di agenzia e dei presupposti normativi per lo svolgimento dell’attività di agente o rappresentante di commercio (art. 74 del DLgs. 59/2010). Concludono, infine, affermando che incombe al creditore la prova dell’esecuzione delle prestazioni di cui pretende il pagamento, sicché diventa decisivo valutare se tale diritto fosse configurabile in capo all’amministratore quando procedette a liquidare in suo favore gli emolumenti. Si tratta di un’indagine di fondamentale importanza al fine di accertare la sussistenza di un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata e il fine specifico, in capo all’agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, richiesti, come si è visto, per l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 2634 c.c.
Per tale ragione, non viene messa in discussione l’assoluzione penale, ma viene rinviata la decisione al giudice civile per le statuizioni risarcitorie fondate sul conflitto di interessi.